All’infinita serie di torti che vengono perpetrati ai migranti che tentano l’affondo alla fortezza Europa avventurandosi in viaggi infernali in mano ai trafficanti, se ne aggiunge uno che attiene alla sfera affettiva. C’è una negazione di fatto dei rapporti umani, dei contesti di provenienza, dei sentimenti, i legami, come se fossero una massa informe di individui senza famiglie dietro, senza storia, senza cultura, senza amori, sofferenze e gioie.
Nessuno, o pochi, nell’occuparsi delle loro vicende, riporta delle lacerazioni che queste persone vivono sulla propria pelle, oltre a quelle fisiche durante il viaggio, per la separazione dalla proprie case. Chiunque lavori attorno al tema delle migrazioni e abbia avuto contatto diretto con giovani, spesso giovanissimi, provenienti da Africa, Asia o Medio Oriente attraverso i cosiddetti ‘viaggi della morte’, si accorge subito, al contrario, di quanto il rapporto con la famiglia, in particolare con la mamma, sia di fondamentale importanza. In alcuni casi è ciò che tiene in vita letteralmente il migrante, specie se piccolo di età.
E così come ci sono i ragazzi che vivono di sentimenti per le loro madri e le famiglie e che spesso decidono di partire proprio per sostenerle prima che per farsi un proprio futuro, dall’altra parte del fenomeno, ci sono mamme che partono, restando ferme, coi propri figli e vivono sospese per settimane, a volte mesi a volte per sempre, senza avere notizie, immaginando scenari tanto drammatici quanto probabili, in attesa di una telefonata o di un qualsiasi segnale.
Chi si occupa di quest’altra faccia del fenomeno migratorio? Chi raccoglie le voci delle migliaia di mamme bloccate nei propri contesti nell’incubo dell’assenza di contatto con i propri figli? Chi denuncia questo ennesimo male banale che tante donne (e uomini) sperimentano sulla propria pelle per politiche migratorie europee in perfetto stile apartheid?
Contro narrazioni
A questo scopo è nato Mums il progetto giornalistico di chi vi scrive in collaborazione con la redazione di Irpi Media, che mira a una contro narrazione del fenomeno migratorio a partire dalle voci delle mamme che restano. Mums prevede una raccolta di testimonianze di madri di alcuni paesi africani di significativa provenienza verso l’Italia e mira, oltre alla redazione di articoli, a una produzione di una serie di cortometraggi e un documentario finale.
Il progetto fa emergere quella ‘migrazione’ vissuta col telefonino in mano ad attendere notizie da chi, per tanti motivi, fatica a darne. Ai migranti, infatti, viene spesso sequestrato il cellulare, non hanno sufficiente credito da acquistare, peraltro, in paesi diversi dal proprio. Se sono in situazione di grave difficoltà, poi, come nei lager libici, o nei tratti più pericolosi, i ragazzi preferiscono non farsi sentire anche se possono, per paura di far capire alla mamma la pessima condizione in cui versano. Ci sono poi quelli che non comunicano perché sanno che la madre è contraria.
«Io la mattina mi sono alzata per andare nei campi, sono tornata a casa e ho chiesto dove fosse Jerreh ma nessuno l’aveva visto – racconta Mariama, 51 anni e sei figli, contadina di Birikama, una cittadina del Gambia dove si è svolta a metà settembre la prima missione di Mums – Mi sono chiusa a casa a piangere, non lo aveva mai fatto». Jerreh era scappato di notte e non aveva avvertito la madre per due motivi fondamentali: innanzitutto perché lei non lo avrebbe fatto mai partire e poi perché sapeva che se avesse sentito la mamma piangere, non sarebbe mai riuscito a proseguire il viaggio. «Per settimane non ho avuto notizie – riprende Mariama – e piangevo di continuo, senza neanche riuscire a mangiare».
Poi l’arrivo a Catania di Jerreh dopo violenze, abusi e la morte vista varie volte in faccia, da minorenne. Tutte cose che la mamma non sa. «Mio figlio ora sta bene ed è sistemato (lavora in provincia di Reggio Emilia come operaio, ndr), ci aiuta molto. Le prima volte che ci sentimmo, mi disse che da quando è nato m’ha vista sempre lavorare duramente nei campi. Voleva cambiare la mia vita e farmi un po’ riposare». Un amore sconfinato, pronto ad affrontare i rischi del viaggio e il dolore che sicuramente avrebbe provocato alla mamma stessa.
Ibraima ora lavora in Sicilia in un ‘Pizza al taglio’ e ha l’hobby del rap, ha già esordito su Youtube con un paio di brani sulla sua esperienza migratoria (col nome di Maka Boy). È partito da Basse, lembo estremo orientale del Gambia a un passo dal Senegal ad appena 15 anni. La mamma, Matou, 4 figli e vedova, ha una salute precaria e fa la contadina, ma da quando è morto il marito, fa fatica a lavorare.
«Sì certo – dice – il suo aiuto per noi adesso è tanto importante, ma è il mio amato figlio, da cui, però, sono lontana e di cui non ho saputo notizie per tanto tempo. Stare senza notizie da un figlio, è una cosa triste». E lo sarebbe ancora di più se Matou sapesse che Ibrima è stato incarcerato cinque volte in Libia e che di quel periodo «non voglio parlarne».
Mariama, Matou, così come Adama e Aminata, le mamme incontrate in Gambia sono molto più che quattro donne. Rappresentano l’archetipo di mamme condannate da una profonda ingiustizia che continua a perpetrarsi verso l’Africa senza soluzione di continuità dallo schiavismo ad oggi passando per il colonialismo, a una separazione dolorosa dai propri figli costretti a percorsi infernali, all’incertezza di vivere senza contatto che può essere infinita, a una pena di sapere (anche se solo in parte) delle sofferenze patite dai loro ragazzi, senza poter fare nulla per proteggerli.
Un paese di forte emigrazione
Nel Gambia di Mariama e Matou l’emigrazione ha un peso specifico decisivo dal punto di vista sociale ed economico. I cittadini gambiani che vivono all’estero sono oltre 118mila, più del 5% della popolazione, mentre le rimesse dall’estero rappresentano più di un quinto del Prodotto interno lordo del paese stando a dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazoni (OIM).
Il Gambia è un importante punto di transito per i migranti che provengono da altri paesi dell’Africa subsahariana ed è uno dei punti da cui parte anche la rotta atlantica che porta alle Canarie, sempre più battuta e sempre più mortale. Arrivare in Europa tramite canali regolari è del resto molto difficile: i visti concessi dai paesi UE ai cittadini gambiani sono poche centinaia all’anno.
Dal 2014 al 2018 in cambio, stando a dati delle Nazioni Unite e delle autorità di Banjul, fra le 35mila e le 38.500 persone proveniente dal Gambia hanno raggiunto l’Europa senza visto, quindi in modo “irregolare”.