Presi alla gola da una miseria angariata, in molti oggi non si preoccupano dell’utilizzo dei propri conti correnti. Il timore prevalente è, in realtà, che non si svuotino.
Però il problema etico rimane. Mai come nel 2019 gli istituti di credito si sono messi al servizio delle aziende belliche italiane.
E i conti correnti si sono trasformati in conti correnti armati. Inevitabile, forse. La torta dell’industria militare è talmente abbondante che le banche fanno fatica a evitare di abbuffarsi al banchetto.
Il 2019 ha registrato una vera esplosione delle transizioni bancarie legate a operazioni di importazione ed esportazione di armamenti. In base all’ultima Relazione del ministero dell’economia e delle finanze (Mef), allegata alla Relazione della presidenza del Consiglio sull’import ed export di armi, l’importo complessivamente movimentato ha superato i 10 miliardi di euro. Di questi, il valore delle esportazioni definitive ha sfiorato i 9,5 miliardi di euro: il 27,5% in più rispetto al dato del 2018 (7,4 miliardi).
Un boom inarrestabile. Basta un confronto con la Relazione di cinque anni fa, relativa ai dati del 2014, quando l’export era fermo a 2,5 miliardi di euro. Una crescita del 278%.
Anche il numero delle segnalazioni effettuate dagli operatori bancari è sensibilmente aumentato, passando dalle 16.101 del 2018 alle 17.678 del 2019 (+9,79%)
Gli istituti di credito si confermano, quindi, uno strumento prezioso di appoggio per le industrie belliche italiane, azzerando i timori che campagne di comunicazione “negative” (vedi la Campagna di pressione alle Banche armate) possano sfregiarne l’immagine.
La spinta della legge
A imprimere un deciso colpo di acceleratore al business è stata l’entrata in vigore del decreto legislativo 105 del 2012, che ha semplificato il sistema burocratico connesso al processo autorizzativo e informativo del settore degli armamenti. Oggi gli istituti di credito non sono più obbligati a chiedere l’autorizzazione del Mef per le transazioni bancarie legate a operazioni in tema di armamenti.
Basta solo comunicare via web al ministero le transazioni avvenute. Un sistema accolto stappando bottiglie di champagne dai banchieri nostrani. È la stessa relazione del 2020 a confermarlo: l’aumento registrato del valore delle transazioni è una «conferma del pieno coinvolgimento degli istituti di credito nell’utilizzo dell’applicativo e del gradimento da parte degli utenti delle funzionalità proposte».
Unicredit domina
Ma sarebbe un’analisi scivolosa ed erronea quella che indicasse una crescita generalizzata dei conti armati. Il gruppo Unicredit, infatti, si è rivelato il più avido. Da solo ha raccolto il 58,11% dell’ammontare complessivo delle transazioni legate alle sole esportazioni definitive. Una cifra che si avvicina ai 5,5 miliardi di euro.
Gli autori della Relazione si sono premurati a precisare che «l’importo complessivo attribuito ai singoli intermediari ricomprende anche operazioni di finanziamento gestite in pool». Come dire: Unicredit potrebbe essere stata la capofila di un gruppo di banche di appoggio. Resta il dato, comunque, che ben oltre la metà del denaro che le grandi aziende armate incassano vendendo i loro prodotti all’estero è transitato sui conti di quel gruppo.
Alle restanti banche le briciole o poco più. Deutsche bank, sul secondo gradino del podio, ha gestito un miliardo di euro (il 10,61%), in crescita del 14% rispetto al 2018. Mentre al terzo gradino scende Intesa San Paolo, con poco meno di un miliardo (10,57%) e con un -14,9% rispetto all’anno precedente. Complessivamente questi 3 grandi gruppi detengono l’80% del mercato.
Crollo della Valsabbina
Una analisi a parte meritano i dati di alcuni istituti di credito. A partire da quelli della bresciana Banca Valsabbina. A fine agosto 2017, infatti, l’istituto aveva reso noto la sua «policy etica, per regolare i rapporti con le aziende che producono armamenti». Più di un analista l’aveva accusata di essere la banca d’appoggio della Rwm Italia, finita nelle polemiche per aver fornito le bombe all’Arabia Saudita nella guerra nelle Yemen.
Duro anche l’attacco dei missionari, che non avevano condiviso la sua policy etica. C’è da registrare che nel 2019 l’istituto bresciano ha gestito poco più di 21 milioni di euro in transazioni, pari allo 0,26% sul totale e in calo del 77% rispetto al dato del 2018.
Sorprende negativamente, invece, la crescita del 54% del Gruppo Crédit Agricole (Cariparma, Carispezia, Friuladria, Crédit Agricole), del 56,3% della Popolare di Sondrio (oltre 190 milioni di euro) e del 37% del Gruppo Bnp Paribas (Banca Nazionale del Lavoro, Bnp Paribas).
Stupisce anche la crescita della Sace Fct, arrivata a 49 milioni di euro. Si tratta di una società a controllo pubblico (del Mef) nata per «sostenere la liquidità e rafforzamento della gestione dei flussi di cassa delle imprese italiane». Lo stato, così, si conferma nel business dei conti armati.
Nel 2019 il 58,7% dell’ammontare complessivo delle esportazioni definitive legate alle transazioni bancarie si è diretto verso i paesi del Medioriente (escluso Egitto). Destano scalpore i dati di Kuwait (945 milioni di euro) e soprattutto di Qatar (4,187 miliardi) frutto di mega recenti commesse come la vendita di aerei (per il Kuwait) e di navi (per il Qatar). I pagamenti sono stati dilazionati nel tempo.
In Africa settentrionale, l’ammontare dell’export è stato di 430 milioni di euro (4,5% sul totale), con i picchi di Egitto (oltre 238 milioni di euro) e di Algeria (151,5 milioni). Mentre nell’Africa subsahariana, il totale è di 165,7 milioni, pari all’1,75% sul totale. Kenya (50,5 milioni di euro) e Nigeria (77,7 milioni) i due paesi con cui si sono avuti maggiori operazioni legate a operazioni bancarie.
Infine, circa l’80 dell’ammontare complessivo delle esportazioni definitive realizzate nel 2019 ha interessato 2 sole aziende: Leonardo spa (46,74%) e Fincantieri spa (33,08%).
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