30×30, il trenta per cento di terre e di mari protetti entro il 2030. La proposta, a maggio, sarà sul tavolo della 15esima Conferenza delle parti della Convenzione sulla diversità biologica (Cbd) che si svolgerà in Cina, a Kunming. L’idea di proteggere ecosistemi marini e terrestri è stata al centro anche del quarto One Planet Summit, ospitato a gennaio dall’Eliseo, a Parigi.
In quell’occasione Francia, Costa Rica e Gran Bretagna hanno lanciato la High ambition coalition (Hac) for nature and people, una coalizione che raccoglie l’adesione di più di 50 nazioni, pronte ad impegnarsi per raggiungere l’obiettivo entro il 2030.
“Fermare la perdita di biodiversità, proteggere gli ecosistemi vitali per la salute umana e la sicurezza economica” si legge nella dichiarazione della coalizione. I paesi aderenti vanno dall’Angola al Botswana, dal Canada alla Repubblica democratica del Congo, dalla Danimarca al Gabon, dal Giappone al Senegal.
A motivare la coalizione, si legge nei documenti ufficiali, sono i dati relativi alla perdita di biodiversità denunciati nel rapporto 2019 di Ipbes, la piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici. Il report denunciava il rischio di estinzione per circa un milione di animali e piante.
A essere minacciati sono: “la possibilità di respirare aria pura, di bere acqua potabile, la sopravvivenza della fauna selvatica, la prosperità delle comunità e la nostra capacità di proteggerci dagli impatti del cambiamento climatico”, sottolineano i membri della Hac.
La necessità di arrivare alla protezione minima del 30% di mari e terre viene giustificata sulla base di evidenze scientifiche, raccolte dalla Hac. Tra i documenti che vengono citati c’è Protecting 30% of the planet for nature: costs, benefits and economic implications. Tra i soggetti autori dell’analisi ci sono organizzazioni che si occupano di conservazione, zoologia, biodiversità. Nel report vengono presi in esame i possibili costi dell’ampliamento delle zone protette e i vantaggi economici: in termini di turismo e servizi ecosistemici.
Nel testo si fa riferimento all’aumento delle terre indigene riconosciute formalmente, ma non vengono calcolati i potenziali effetti sociali e culturali della proposta. Il report sottolinea la necessità di compensazioni e di gestione congiunta con i popoli indigeni, per evitare che l’area protetta venga osteggiata dalle comunità locali.
Se per alcuni l’obiettivo 30×30 è un freno concreto alla perdita di biodiversità, per altri l’aumento delle aree protette sul pianeta non solo non è garanzia di successo per la tutela delle specie viventi ma metterebbe a rischio lo stile di vita e la sopravvivenza di popolazioni indigene e delle comunità che vivono in relazione con la natura.
La proposta, infatti, viene contestata da più di 200 tra organizzazioni, associazioni e singoli ricercatori. Si tratta di realtà che si occupano della tutela dei diritti di contadini, dei popoli indigeni e delle comunità locali, riunite intorno a Survival International, Minority Rights Group International e Rainforest Foundation.
In un documento pubblicato il 18 gennaio hanno sottolineato le principali preoccupazioni legate alla proposta presente nella “zero draft”, ovvero nella bozza di lavoro del quadro globale per la biodiversità che verrà discusso alla Convenzione sulla diversità biologica, in Cina.
“L’obiettivo del 30% è stato fissato senza una valutazione preliminare degli impatti sociali e dell’efficacia della conservazione” si legge. I firmatari temono che il raddoppio delle aree protette generi spostamenti forzati di popolazioni. “Potrebbero subire gravi impatti negativi fino a 300 milioni di persone” sottolineano.
I firmatari si rifanno a uno studio, pubblicato sulla rivista accademica Nature Sustainability nel 2019, che analizza gli impatti diretti sulla popolazione nel caso in cui si arrivi alla protezione del 50% del pianeta. Secondo gli studiosi sono più di un miliardo le persone che attualmente vivono in aree che potrebbero diventare protette.
La “zero draft”, inoltre, secondo le organizzazioni a difesa dei popoli indigeni, non contiene “misure effettive a tutela delle terre, dei diritti e dei mezzi di sussistenza delle popolazioni native e delle altre comunità che dipendono dalla natura”.
La bozza prevede una “protezione rafforzata” sul 10% delle nuove aree protette. I siti verranno individuati tra quelli più rilevanti per la loro biodiversità. E la gestione della conservazione dovrà essere “in partnership con le popolazioni indigene e le comunità locali”, si legge.
Popoli indigeni e comunità locali vengono citati come protettori dei siti più ricchi di biodiversità anche nei documenti della coalizione Hac. Vengono considerati partner nella fase di definizione delle aree da conservare e viene assicurato il consenso libero, previo e informato, in linea con la dichiarazione della Nazioni Unite per i diritti dei popoli indigeni.
Quello di cui non si parla nei documenti ufficiali, che propongono il raddoppio delle aree protette, è la situazione in cui si trovano molti popoli indigeni inseriti nei modelli di conservazione esistenti.
Espulsioni forzate e incompatibilità tra le attività tradizionali e le norme della conservazione vennero denunciate nel 2016 e nel 2018 anche da Victoria Tauli-Corpuz, durante il suo mandato come relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti dei popoli indigeni. L’esperta Onu aveva segnalato l’uso della violenza per allontanare le popolazioni dai territori tradizionali, l’assenza di consultazioni, di compensazioni adeguate e le accuse di bracconaggio nei confronti di coloro che tornavano ad occupare le terre ancestrali.
Secondo i firmatari della lettera aperta, prima di creare nuove aree protette bisognerebbe: riconoscere e proteggere i sistemi di gestione collettiva e tradizionale delle terre, garantire la tutela delle popolazioni indigene e delle comunità che vivono della natura, assicurare i loro diritti di accesso alle risorse e il consenso libero, previo e informato.