In questo 2021, dieci paesi africani andranno alle urne. Alcuni dei capi di stato che si ripresenteranno alle urne sono al potere da più di 30 anni: Yoweri Museveni in Uganda lo è da 34 anni; Idriss Déby in Ciad “regna” da 30 anni. Ma uno dei recordman di longevità, con Obiang Nguema (Guinea Equatoriale) e Paul Biya (Camerun), resta Denis Sassou-Nguesso. Il presidente del Congo sembra avere fatto sua l’espressione attribuita al defunto presidente del Gabon, Omar Bongo: «Non si possono organizzare le elezioni in Africa per poi perderle».
In ossequio a questo principio, Sassou-Nguesso si appresta a organizzare e a vincere le elezioni programmate per il 21 marzo prossimo, 5 anni dopo la sua discussa rielezione del 2016. Senza sorpresa, dopo 5 giorni di congresso il suo partito, il Partito congolese del lavoro (Pct) al potere dal 1969, lo ha indicato come suo candidato alle elezioni: «Il comitato centrale del Pct ha approvato all’unanimità l’investitura del compagno Denis Sassou-Nguesso quale candidato alla magistratura suprema del paese, assicurandogli il sostegno morale, materiale e finanziario» ha dichiarato trionfalmente, dalla radio nazionale, Esther Ayissou Gayama, membro influente del comitato centrale.
Un finto confronto
La candidatura di Sassou-Nguesso era in realtà un segreto di pulcinella nelle strade della capitale Brazzaville, soprattutto dopo l’apparente braccio di ferro che ha opposto nel partito, tra il 2019 fino al congresso straordinario, i vecchi dignitari del Pct e il gruppo dei “rinnovatori”, capeggiati dal figlio stesso del presidente, Denis-Christel Sassou-Nguesso.
Una battaglia che non ha fatto i conti con la volontà dell’anziano leader di brigare un altro mandato. Pochi osservatori della scena politica congolese avevano creduto a questa finta guerra per la successione, conoscendo la ferrea volontà del leader congolese di essere insostituibile alla guida del paese.
Una volontà confermata dalla dichiarazione del neoletto segretario generale del Pct, Pierre Moussa, per il quale «la vittoria del compagno Denis Sassou-Nguesso all’elezione presidenziale rappresenta per il partito un imperativo categorico. E abbiamo i mezzi per portarla a termine». E un altro fedelissimo, Pierre Ngolo, ha aggiunto che la scelta era «ineluttabile», ossia una «scelta del cambiamento nella continuità», laddove per continuità bisognerebbe intendere perennità.
Dal 1979 al 1992, poi dal 1997 a oggi ‒ con la sola eccezione, quindi, delle prime elezioni libere del paese (1992) ‒, il potere in Congo significa Sassou-Nguesso e il suo partito, intorno ai quali gira una opposizione divisa, addomesticata o imprigionata o costretta all’esilio quando è forte e decisa.
In prossimità delle elezioni presidenziali del luglio 1997, scoppiarono scontri armati tra le milizie del presidente Pascal Lissouba e quelle di Sassou-Nguesso. Si assistette a un tutti contro tutti per la conquista del potere, con varie milizie pesantemente armate e pronte a colpire i civili commettendo veri crimini contro l’umanità. Le milizie “zulu”, Cobras, Cocoyes hanno seminato il terrore con il sostegno palese, oppure occulto, di potenze straniere attratte dalla manna petrolifera congolese.
Venne deciso in quelle drammatiche circostanze l’appoggio a Sassou-Nguesso da parte dell’agguerrito e ben equipaggiato esercito angolano che, per conto della Francia, mise fine alla guerra riportando Sassou-Nguesso al potere. Così il vecchio leader, un tempo marxista-leninista, si è rivelato il garante degli interessi della Françafrique.
Elezioni farsa
La sicumera rivelata dalle affermazioni degli esponenti del Pct potrebbe essere interpretata come la certezza da parte di Sassou-Nguesso e del suo partito di un risultato scontato, simile a quello delle elezioni del 2016, ufficialmente vinte dal presidente in carica, ma fortemente criticate dall’opposizione e dall’opinione pubblica africana e mondiale.
Il generale Jean Michel Mokoko, 73 anni, ex capo di stato maggiore dell’esercito, ex fedelissimo di Sassou-Nguesso, era il suo principale rivale e sarebbe stato il vero vincitore di quel voto, avvenuto dopo la contestatissima riforma della Costituzione del 2015 che permetteva a Sassou di superare il vincolo dei mandati.
Per essersi rifiutato di accettare la vittoria del presidente uscente e rivendicando a sé e alla sua coalizione la vittoria, il generale Mokoko è stato condannato, due anni dopo, a 20 anni di carcere. L’accusa? Aver messo in pericolo la sicurezza dello stato. Si trova tuttora in prigione nonostante molti appelli dei partiti di opposizione e di molti organismi di difesa dei diritti umani. Vent’anni di lavori forzati è stata invece la condanna, nel 2019, per un altro oppositore, André Okombi Salissa.
Tra intimidazioni, blandizie e cooptazioni, l’opposizione si presenta a queste elezioni frammentata e per lo più con candidature logorate e deboli che diagnosticano, anche qui, la vera malattia della giovane democrazia congolese, ossia il mancato rinnovamento della classe dirigente, la sua mancanza di visione alternativa e, soprattutto, un vero appeal verso un elettorato rassegnato e diffidente nei confronti di una opposizione camaleontica che, spesso, ha trovato compromessi opachi e accordi strumentali con il potere.
Subito dopo l’annuncio della candidatura di Sassou-Nguesso, Pascal Tsaty Mabiala, leader dell’Unione panafricana per la socialdemocrazia (Upads) – principale partito di opposizione – ha dichiarato che non ci sono le condizioni per la tenuta di elezioni, proponendo di posticiparle al 2023 con il varo di un governo di transizione, privo di Sassou-Nguesso.
Nel frattempo, in attesa della revisione delle liste elettorali, anche l’opposizione presenta i suoi candidati. Tra i cosiddetti moderati ci sono Tsaty Mabiala e Parfait Kolelas, figlio dell’oppositore storico Bernard Kolelas. Nell’opposizione cosiddetta radicale una figura di rilievo è Mathias Dzon, ex banchiere e ministro di Sassou-Nguesso, investito dalla coalizione Ard (Alleanza per la repubblica e la democrazia). Il suo tentativo è di coagulare intorno alla sua figura altri nomi di spicco dell’opposizione.
Crisi economica
Ma il Congo deve anche affrontare una recessione economica iniziata nel 2015 con il crollo vertiginoso dei prezzi del petrolio e l’inizio della crisi del debito. Tra il 2005 e il 2011, il paese aveva conosciuto una forte crescita economica – con un tasso annuale medio del 5,4% – stimolata dai prezzi degli idrocarburi. In quel periodo, la parte della popolazione sotto la soglia della povertà era passata dal 50,7% (2005) al 40,9% (2011).
Con la crisi iniziata nel 2015, il paese ha conosciuto una crescita esponenziale della povertà. Con un Prodotto interno lordo (Pil) di 10,82 miliardi di dollari nel 2019, il Congo ha un Pil pro capite di 2.613 dollari. Valori statistici che non riflettono le condizioni di vita delle persone, con un potere d’acquisto seriamente logorato dalla crisi del Covid-19. Secondo l’Indice di sviluppo umano dell’Onu (Isu), il Congo si piazza al 149° posto su 189 nazioni.
La torta congolese è stata mal distribuita durante gli anni di vacche grasse, con una piccolissima minoranza al potere che ha dilapidato le risorse pubbliche esportando all’estero ingenti capitali. Inchieste sono in corso in Francia e altrove per scovare queste ricchezze nascoste e sottratte ai bisogni primari della popolazione, privata dei servizi sociali essenziali e senza lavoro.
Insomma il Congo è ricco ma i congolesi sono impoveriti. Appena 4 milioni di abitanti in un paese così ricco avrebbero potuto vivere come i cittadini del Qatar. In Congo i consumi del 10% più ricco della popolazione supera di 17,2% quello del 10 più povero.
Il 15 agosto scorso il Congo ha celebrato senza gioia né entusiasmo i 60 anni di indipendenza. C’era davvero poco da festeggiare e nell’anno in corso il paese dovrà affrontare due sfide vitali: quella della pace civile per il risultato delle elezioni; e quella, ancor più impegnativa, della rifondazione della sua economia per renderla più trasparente, equa e inclusiva a beneficio di tutti, a cominciare dai più poveri, come recitava un tempo lo slogan del partito al potere: «Tutto per il popolo e nient’altro che per il popolo».