Il cardinale Christian Wiyghan Tumi, l’Africa in piedi
«Un vecchio seduto vede più lontano di un giovane in piedi». È il cardinale Christian Wiyghan Tumi a lanciare la sua provocazione a una platea di giovani accorsa alla cattedrale SS. Pietro e Paolo di Douala per ascoltarlo. Da quella posizione, che tradizionalmente si attribuisce ai capi villaggio dei grassfields da cui proviene, parla con loro come se il suo discorso fosse rivolto al domani di una nazione inesorabilmente rivolta al passato, perché ostaggio di un Paul Biya che a 88 anni, con quasi 39 di potere, non osa passare il testimone.
La stessa franchezza il porporato l’ha vissuta nella relazione con il presidente, quando nel 2008 cambiò la Costituzione per ripresentarsi alle elezioni del 2011. In diverse occasioni egli disse ai media: «se fossi in lui io non mi ricandiderei, io non ascolterei i consigli di coloro che vogliono che si ricandidi». Ultimamente aveva detto: «per governare un paese come il Camerun, c’è bisogno di energie fisiche […]. Spero che questo mandato sia veramente l’ultimo per lui».
Tumi, morto il 2 aprile a 90 anni, è l’immagine di una «chiesa africana in piedi», secondo la felice espressione di Paolo VI, in Uganda nel 1976.
I missionari saveriani lo hanno conosciuto nel 1982 a Yagoua, nell’estremo nord del paese, dove lui si era appena insediato come novello vescovo.
In 50 anni di ministero ha promosso l’immagine di una chiesa incentrata sulla fede in Gesù Cristo nel solco del Concilio Vaticano II, e ben radicata nella migliore tradizione africana che vuol dire rispetto dell’altro, accoglienza, dialogo e azione per un miglioramento della vita delle persone.
Il cardinale Tumi è l’esempio di uomo libero perché non legato al potere. Potremmo considerarlo un vero oppositore al regime di Biya.
Nel 2009, guidava un corteo per le strade di Douala, per manifestare contro la ratifica da parte del Camerun del protocollo di Maputo del 2003 che prevede pratiche contrarie alla vita nascente.
Nel 2016 avviene la più grande crisi interna al paese, ancora irrisolta, quando il potere reprime nel sangue la manifestazione pacifica di avvocati ed insegnanti di lingua inglese che a Bamenda (capoluogo della regione anglofona) chiedevano il rispetto degli accordi del lontano 1972. Era il 1° ottobre quando, dall’alto di un elicottero, uno o più soldati sparando su una folla inerme uccisero 100 persone. Quel giorno segnava l’inizio di ciò che oggi chiamiamo la “crisi anglofona” che ha prodotto più di 2mila morti e 650mila sfollati.
Ecco l’ultima battaglia del cardinale che durante la guerra si fa promotore di giustizia e di pace. Invoca da subito un dialogo, ma il “vecchio leone” di Etoudi non è pronto a “trattare con dei terroristi”. Infine, dove non arriva la legge della forza, vi arriva l’intelligenza e la pazienza del vecchio cardinal Tumi che si rivela vincente.
Nel 2019 giunge il tempo del grande dialogo nazionale, organizzato con la solita pompa del potere, ma sfruttato da Tumi per chiedere da una parte il ritiro dell’esercito di Yaoundé e dall’altra la consegna delle armi da parte dei separatisti.
Inizia una serie di contatti con l’una e l’altra parte, si intravedono i primi risultati positivi. Il cardinale è vittima di un rapimento, il 5 e 6 novembre 2020, mentre riaccompagnava il Fon (capo tradizionale) di Kumbo a casa sua dopo un esilio di 2 anni.
Nonostante le precarie condizioni in cui viene detenuto dai ribelli non spreca l’occasione per parlare loro: «voi dovete dialogare e dovete permettere ai vostri fratelli e sorelle più piccoli di andare a scuola. Non ha senso che lottiate contro di loro».
L’ultima sua apparizione pubblica è in un’intervista alla televisione nazionale in cui il cardinale chiosa: «Sono sempre pronto ad accogliervi per rispondere alle vostre domande e dire ciò che penso (…) Non bisogna che la gente creda che coloro che sono al potere amino questo paese più di noi. No! Noi amiamo questo paese. Io amo questo paese!».
Uganda: l’eredità dell’arcivescovo di Kampala, Cyprian Kizito Lwanga
Una morte improvvisa quella dell’arcivescovo di Kampala, Cyprian Kizito Lwanga, trovato senza vita la mattina del 3 aprile, dopo che la sera prima aveva partecipato vivacemente alla Via Crucis. Aveva 68 anni.
La notizia della sua morte ha scioccato il paese, moltiplicando le voci di un suo assassinio, dopo che nell’omelia era tornato a denunciare le violenze e i soprusi delle forze di sicurezza contro gli oppositori al regime di Yoweri Museveni: «Siamo profondamente preoccupati per le azioni di alcune agenzie di sicurezza in relazione alla scomparsa di alcuni dei nostri giovani. Questo sta provocando rabbia, divisione, paura e ansia nella popolazione», aveva avvertito, ed è «totalmente contrario alle leggi che tutelano i diritti umani, di cui siamo firmatari come paese». Nell’omelia, aveva anche chiesto il rilascio incondizionato degli oppositori detenuti in vari centri di detenzione senza essere portati in tribunale.
L’autopsia, eseguita nei giorni scorsi, ha attribuito le cause della morte ad un arresto cardiaco dovuto a una trombosi, ma in molti in Uganda continuano a pensare che l’arcivescovo sia stato volutamente tacitato.
Nato come prete nel 1978 presso la cattedrale di Rubaga, dove ha servito per 18 anni, è stato nominato vescovo nel 1996 e assegnato alla nuova diocesi di Kasana-Luweero. Il defunto arcivescovo ha servito come vescovo a Luweero per 10 anni fino al 2006, quando è stato nominato terzo arcivescovo dell’arcidiocesi di Kampala per succedere al cardinale Emmanuel Wamala che si era ritirato.
Cyprian Kizito Lwanga ha lasciato una grande eredità. Sarà ricordato per aver sempre denunciato i soprusi del regime, così come avevano fatto i suoi predecessori con i dittatori Idi Amin e Milton Obote.