In Darfur sembra che il tempo si sia fermato. Le cronache degli ultimi mesi non sono sostanzialemente diverse da quelle del primo decennio di questo secolo, quando era in pieno svolgimento il conflitto tra il governo islamista di Khartoum – guidato dal deposto presidente Omar El-Bashir – che si serviva di milizie arabe, i janjaweed, per combattere un’insurrezione dei gruppi autoctoni africani, causata da politiche discriminatorie.
L’elenco di abusi e violenze perpetrate dall’inizio di quest’anno solamente è veramente preoccupante. Il centro è stato il capoluogo del Darfur Occidentale, El Geneina, e il campo profughi di Krinding, nelle sue immediate vicinanze, abitato da decine di migliaia di sfollati in gran parte masalit, uno dei gruppi etnici africani maggioritari nella regione.
Gli attacchi di milizie arabe, così sono state concordemente descritte dai testimoni, durati alcuni giorni la scorsa settimana, hanno lasciato sul terreno almeno 144 morti e 233 feriti, secondo il Comitato dei medici del Darfur Occidentale, con circa 2mila persone rifugiate oltreconfine, in Ciad. El Geneina era stata al centro di incidenti simili anche nello scorso gennaio. Allora i morti erano stati almeno 163.
Sotto attacco anche i campi della località di Gereida, nel Darfur Meridionale. Nei giorni scorsi incendi appiccati in diversi posti quasi contemporaneamente, hanno provocato la morte di almeno 3 persone e ne hanno lasciato almeno 2mila all’addiaccio e prive di ogni bene. In gennaio la cittadina di Gereida era stata teatro di ripetuti scontri tra i fallata e i rizeigat, africani i primi, arabi i secondi. Allora i morti furono almeno 130 e molti di più i feriti, con decine di migliaia gli sfollati.
In un attacco al campo di Kalma, nelle vicinanze di Nyala, capoluogo del Darfur Meridionale, domenica sera è stato ucciso un uomo di 35 anni. Sabato sera, in un episodio analogo, erano stati uccisi 5 ragazzi che guardavano una partita di calcio alla televisione. Due attacchi a sorpresa agli sfollati in due giorni, sottolinea il comitato dei leader del campo.
All’inizio di aprile c’erano stati scontri, con 15 morti nel Darfur Settentrionale, precisamente nella località di El Sareif Beni Hussein, per dissidi sulla nomina di un nuovo amministratore. L’elenco potrebbe continuare a lungo, snocciolando nomi di campi profughi, di località, di cittadine, di mercati e numeri di vittime in tutta la vastissima regione.
Allarmi inascoltati
Chi conosce un po’ la situazione, è molto preoccupato per l’aggravarsi dell’instabilità generale e delle tensioni fra i diversi gruppi etnici e le diverse comunità, ma non è sorpreso.
In un articolo pubblicato il 22 gennaio scorso, Human Rights Watch (Hrw) sostiene che sta succedendo quello che era logico aspettarsi dopo la chiusura della missione di pace Unamid, decisa all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu il 22 dicembre dello scorso anno. Il suo graduale disimpegno era iniziato già da tempo.
Era stato deciso su pressione del governo del presidente El-Bashir, che aveva fatto di tutto, prima per impedirne il dispiegamento, e poi per complicarne e limitarne il lavoro. Il Consiglio di sicurezza ne aveva approvato la riduzione e poi aveva trattato la definitiva chiusura, nella convinzione che il nuovo governo di transizione e l’adesione agli accordi di pace, firmati a Juba nell’ottobre 2020 dalla maggioranza dei movimenti armati darfuriani (non ha ancora deposto le armi l’Slm di Abdel Waid al Nur che ha la sua roccaforte nel Jebel Marra), avessero radicalmente cambiato la situazione.
Ma così non è. Sono cambiati gli attori, e in qualche caso la parte interpretata da attori ben noti, ma la trama rimane la stessa, anzi, se possibile, con l’aggiunta di qualche complicazione. D’altra parte, bastava leggere le notizie provenienti dalla regione per rendersene conto. Hrw afferma che la “decisione è stata presa nonostante l’evidenza di una crescente violenza intercomunitaria” e che “il Consiglio di sicurezza è stato ripetutamente informato che un ritiro completo dei militari dell’Unamid avrebbe lasciato i darfuriani ancor più vulnerabili a rinnovate violenze”. Appelli inascoltati.
Presenze ingombranti
L’Onu non ha tenuto conto neppure delle forti mobilitazioni della stessa popolazione che chiedeva una presenza militare della missione di pace a presidio del territorio e il ritiro delle Forze di supporto rapido (Rsf), inglobate nell’esercito regolare ma ancora sotto il comando di Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto con il soprannome di Hemetti, ora vicepresidente del Consiglio Sovrano, la massima istituzione del paese durante questo periodo di transizione. Le Rsf, che hanno radici nelle famigerate milizie janjaweed, si sono macchiate di efferati crimini durante gli anni del conflitto nella regione e sono ancora accusate dalla gente di abusi e violenze quotidiane.
Con ogni evidenza, l’esercito nazionale non era in grado di difendere i propri cittadini, e neppure ora si è dimostrato all’altezza del suo primario compito istituzionale. Il 13 aprile si è recato a El Geneina il presidente del Consiglio Sovrano, generale Abdelfattah El Burhan, accompagnato dal ministro degli interni, generale Ezzeldin El Sheikh, e dal direttore dei servizi di intelligence, generale Jamal Abdelmajeed.
Il loro scopo era di indagare sulla situazione all’indomani della decisione di schierare urgentemente nella regione una forza congiunta di cui farà parte anche un contingente di uomini dei movimenti darfuriani, come era del resto previsto negli accordi di pace di Juba.
Non è chiaro se un simile provvedimento potrà rassicurare la gente del Darfur che continua a considerare con una certa diffidenza le istituzioni di Khartoum. D’altra parte, conoscono le persone che le compongono sotto una luce diversa. Anche Abdelfattah El Burhan ha una storia non proprio edificante nella regione.
Tra il 2003 e il 2005 era un colonnello dei servizi di intelligence militari; operava proprio nel Darfur Occidentale coordinando gli attacchi dei janjaweed e dell’esercito contro i civili. Uno sfollato, intervistato da The New Humanitarian, sito che da 25 anni si occupa di informazione dalle zone di crisi, si è espresso in questi termini riguardo al dispiegamento della forza congiunta: «Questo accordo rafforza dei criminali».
I gruppi della società civile non chiedono solo il dispiegamento di una forza militare credibile a difesa della popolazione, ma anche il disarmo delle numerose milizie che si spartiscono il controllo del territorio, l’arresto dei responsabili delle violenze e un veloce processo che li inchiodi alle loro responsabilità.
Un’eredità tossica
Ma non sarà possibile affrontare la situazione considerandola solo dal punto di vista della sicurezza e della giustizia. Le radici dei problemi stanno nelle politiche del regime precedente, un’eredità tossica su cui il governo transitorio dovrà prendere difficili decisioni. Alla base dei conflitti intercomunitari sta il problema dei diritti sulla terra riportato in primo piano dagli accordi di pace che garantiscono agli sfollati il ritorno ai villaggi di origine.
Ma in molti di quei villaggi, da oltre un decennio, si sono stabiliti gruppi arabi, provenienti anche dai paesi vicini, cui il passato regime ha concesso a tamburo battente la cittadinanza, allo scopo di modificare la demografia della regione a vantaggio del proprio progetto politico, quello di un Sudan arabo e islamico, e di rafforzare il proprio potere politico contando su un abbondante pacchetto di voti. Ora i gruppi arabi si sentono minacciati, ha dichiarato un attivista della società civile di El Geneina a The New Humanitarian, e si chiedono dove potranno andare.
Il precedente governo aveva previsto per gli sfollati una sistemazione in una rete di “villaggi modello”, finanziati al 50% dal Qatar, che si era impegnato per 88,5 milioni di dollari, e a cui avrebbe dovuto contribuire anche un fondo per la ricostruzione del Darfur, finanziato dall’Onu. Una vera e propria “villagizzazione” che gli sfollati hanno rifiutato decisamente, e per motivi molto comprensibili. Avrebbero infatti perso ogni diritto alla propria terra, avrebbero dato al governo la possibilità di controllarli, e anche di colpirli, più facilmente.
E non era affatto scontato che le condizioni di vita sarebbero state diverse da quelle di un campo profughi, ma senza i benefici. Inoltre, altri esempi simili sono stati negativi. Con il resettlement, infatti, le comunità che vivevano nelle terre sommerse dai bacini delle numerose dighe sul corso del Nilo hanno perso i loro mezzi di sostentamento e vivono in condizioni ben peggiori rispetto a prima.
Quello dei diritti alla terra è dunque un problema di difficilissima soluzione. E c’è chi soffia sul fuoco. Secondo il governatore del Darfur Occidentale, Mohamed El Doma, i gravi incidenti di questi giorni nel suo stato hanno una radice politica, non etnica. «L’Ncp (cioè il vecchio regime) vuole destabilizzare la situazione», ha denunciato.
La situazione è ulteriormente complicata dal controllo delle risorse, e in particolare dell’oro, di cui il Sudan è diventato uno dei maggiori produttori del continente, con una media stimata di oltre 90 tonnellate all’anno. La zona di produzione principale è il Jebel Amir, nel Darfur Settentrionale. La maggior parte dell’oro viene estratto in modo artiginale e ha costituito per anni il mezzo di finanziamento principale di diversi gruppi armati che hanno sfruttato i minatori e hanno commercializzato il metallo, per la maggior parte in modo illegale.
Su questo modello di sfruttamento dell’oro ha fondato la sua ascesa anche politica Hemetti, che è ora considerato tra gli uomini più ricchi e potenti del paese. Il passato regime non aveva mai tentato seriamente di regolamentare il settore, lasciando di fatto mano libera ai miliziani suoi alleati, anche per garantirsene la fedeltà.
Il governo di transizione ha invece preso provvedimenti severi, almeno sulla carta, volti a controllare l’estrazione e la commercializzazione del metallo. E questo tocca gli interessi di chi aveva fondato sull’oro il proprio potere.
Insomma, il Darfur è il banco di prova probabilmente più difficile della transizione del paese. Sulla sua stabilizzazione si fonda gran parte della possibilità del Sudan di approdare ad istituzioni inclusive e democratiche.