Andiamo tutti al supermercato e compriamo del cibo, con una certa attenzione al Made in Italy, senza farci troppe domande su come arriva sulle nostre tavole. E quando ce le facciamo, rimangono il più delle volte sospese o prigioniere della liturgia delle ingiustizie che bisogna sconfiggere (senza sapere bene come), mentre mettiamo nel carrello una confezione di sugo di pomodori, che ha incorporato nel prezzo quell’ingiustizia: la forza lavoro migrante – malpagata, che vive in insediamenti informali e con i diritti al minimo – che ha raccolto i pomodori.
Nel saggio di apertura, la sociologa Alessandra Corrado spiega che le centrali di acquisto internazionali esercitano un potere oligopolistico sul mercato, imponendo prezzi e condizioni di acquisto agli agricoltori.
Più in specifico: «Il saldo dominio della vendita al dettaglio assegna ai supermercati l’enorme potere di plasmare la produzione agroalimentare e regolare il commercio a livello globale, stabilendo e imponendo standard qualitativi per decine di migliaia di prodotti coltivati e trasformati (…)». Un modello che regge «esercitando una costante pressione sui fornitori, costretti a contenere i costi e sostenere la maggior parte dei rischi legati alla produzione agricola».
Ecco lo scopo dei nove saggi che compongono il libro: analizzare le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti agricoli migranti e individuare i fattori che determinalo la loro condizione e la loro “integrazione differenziale” nel mercato del lavoro.
Sotto la lente i processi socio-economici di trasformazione dell’agricoltura e del sistema agroalimentare; e il contesto giuridico, politico e sociale relativo alla gestione delle migrazioni in Europa e in Italia.
Osservando i mutamenti del lavoro agricolo in Italia nel periodo 2011-2017 e le reazioni dei migranti con le rivolte di Castel Volturno e Rosarno (2008 e 2010) e lo sciopero di Nardò (2011) si registrano situazioni molto simili tra loro in tutte le grandi aree rurali: che si tratti del Tavoliere foggiano (pomodori) o di Saluzzo in Piemonte (raccolta della frutta), dell’Agro Pontino nel Lazio e della Piana del Sele in Campania (ortofrutta) o della Pianura Padana con la filiera de formaggi Grana Padano e Parmigiano Reggiano.
Stimolante il saggio di Neil Howard, Università di Barth (Regno Unito) e di Roberto Fiorin, Mixed Migration Centre di Ginevra, che mette in guardia media e società civile dal facile uso della categoria “schiavo”: si rischia «di negare la capacità soggettiva dei lavoratori migranti di autorganizzarsi in piccoli gruppi di lavoro e in associazioni di tutela e di lotta per i diritti».
Una categoria «riduttiva e non rappresentativa delle reali traiettorie di vita dei lavoratori migranti. L’iconografia della pietà e dell’assoluta precarietà, infatti, li rappresenta come vittime senza possibilità d’azione».