Caos, divisioni, corruzione. Ma anche, a sentire le parole del nuovo ministro della salute della Guinea-Bissau, Dionísio Cumbà – chirurgo pediatrico formatosi all’ospedale di Padova – speranza e costruzione di nuove condizioni per assistere i quasi due milioni di abitanti di questo piccolo paese sulla costa atlantica dell’Africa occidentale. La Guinea-Bissau detiene il non invidiabile primato del peggiore sistema sanitario africano, secondo soltanto a quello della Somalia.
La speranza di una sanità in grado di curare tutti i cittadini della Guinea-Bissau viene condivisa da Dionísio Cumbà con Laura Dante, la moglie italiana, conosciuta a Padova, dove lavorava come infermiera, e dove Dionísio aveva fondato, insieme ad altri volontari, l’associazione Toka Toka Afrika.
Un nome evocativo che rimanda al più diffuso mezzo di trasporto del paese, dove camioncini vetusti che possono ospitare una quindicina di persone vengono riempiti fino al triplo della loro capienza: da qui il suggestivo appellativo di “toka-toka”, visto che i contatti fra i passeggeri non mancano di certo.
Il nuovo ministro è una persona riconosciuta come disponibile (basti vedere come la notizia della sua nomina è stata accolta dagli amici di Facebook), oltre che molto competente professionalmente: fra l’altro è l’unico chirurgo pediatrico della Guinea-Bissau.
Ma la sfida che deve affrontare è da fare tremare i polsi. Speranza di vita fissata sotto i 60 anni, un unico ospedale degno di questo nome, l’ospedale nazionale Simão Mendes, tubercolosi, Aids e malaria diffusi endemicamente, 0,2 medici ogni 1.000 abitanti, infrastrutture fatiscenti, tutte di epoca coloniale, corruzione diffusa.
Questo il quadro che attende Dionísio Cumbá all’indomani della sua recente nomina a ministro, in seguito a un rimpasto governativo voluto dal contestato presidente Sissoco Embaló che ha portato alla sostituzione di dieci ministri. Il precedente ministro della sanità, António Deuna, è stato arrestato dalla polizia giudiziaria per coinvolgimento in due gravissimi casi di corruzione, legati alla vendita illegale di medicinali e sparizione di soldi pubblici.
Signor ministro, un quadro niente male… Chi glielo ha fatto fare di accettare quella che tutti giudicano essere una “missione impossibile”?
Prima di tornare in Guinea-Bissau avevo piena coscienza di come stessero le cose. Una situazione strutturale di fragilità e precarietà, particolarmente grave in ambito sanitario. Nel 2018 ero stato nominato presidente dell’Istituto nazionale di sanità pubblica, e da lì è iniziata la mia lotta affinché le autorità del mio paese dessero maggiore attenzione alla salute dei loro concittadini.
Per loro, infatti, il problema della salute non si è mai posto in modo stringente, visto che l’élite è sempre andata a curarsi all’estero. Oggi, però, una delle cose che il Covid-19 ci ha fatto capire è che ci vuole un sistema sanitario forte sul territorio e capace di dare risposte a tutti i cittadini, dal presidente all’ultimo dei nostri contadini o pescatori. Questa è la sfida attuale che io non potevo non raccogliere conoscendo il disastro sanitario del mio paese.
Ci descriva sinteticamente la situazione della sanità.
Purtroppo la risposta è semplice: qui manca tutto. Le infrastrutture, anche quelle dell’ospedale Simão Mendes, sono ridotte quasi a zero, e sono tutte di epoca coloniale; molti medici sono scappati e vivono all’estero, visto che qui non ci sono le condizioni professionali né tanto meno salariali per lavorare e vivere degnamente.
Per parlarle del mio settore: una mamma che deve partorire in un ospedale della Guinea-Bissau deve soltanto pregare Nostro Signore perché l’assistenza è praticamente inesistente, così come qualsiasi tipo di diagnosi prenatale, da qui l’elevatissimo indice di morti per parto, sia dal lato materno che da quello del neonato.
Le do conto di un fatto orribile accaduto pochi giorni fa. Ero in sala operatoria presso l’ospedale Simão Mendes (ho accettato l’incarico di ministro, ma condizionato al fatto di continuare a operare), quando sento dire che sta arrivando una signora che deve partorire. La famiglia aveva pagato per il trasporto in ambulanza, tuttavia il parto presso l’ospedale militare non è stato possibile, a causa della mancanza di medici e personale infermieristico.
L’unica soluzione, allora, sarebbe stata quella di recarsi presso una clinica privata, dove la famiglia avrebbe dovuto pagare 300mila franchi Cfa (457 euro), che non aveva, per effettuare il cesareo. Conclusione: il bambino è morto. Ecco, questo è la quotidianità della sanità in Guinea-Bissau. Si aggiunga che molte giovani hanno rapporti sessuali – spesso frutto di vere e proprie violenze – già in età adolescenziale e senza protezione, e ciò favorisce gravidanze indesiderate oltre che la diffusione dell’Aids.
Quale programma ha per superare queste situazioni?
Stiamo lavorando proprio su questo, per definire le priorità. Anzitutto, le infrastrutture: nella maggior parte degli ospedali manca luce, acqua e lo sporco dilaga. Le strumentazioni sono al collasso, e oggi, senza macchinari diagnostici, è molto difficile fare medicina.
In secondo luogo ci vogliono molti più medici, oltre al personale infermieristico: non ne abbiamo, e i pochi che sono rimasti sono scontenti a causa delle condizioni di lavoro e degli stipendi, indegni di una professione tanto importante. Quindi stiamo approntando un piano per far rientrare i nostri professionisti che si trovano all’estero, creando condizioni minime: uno stipendio ragionevole, casa, auto e strutture per lavorare.
Per dare un’idea. Oggi non abbiamo nessun medico anestesista nel paese, per cui quando dobbiamo effettuare un’operazione sono gli infermieri a fare l’anestesia, con tutti i rischi del caso. Poi c’è il problema del personale amministrativo che, in questo momento, sta gestendo la sanità e le sue principali strutture: si tratta, in genere, di quadri anziani, poco motivati e con una elevata resistenza al cambiamento e alle nuove tecnologie.
Senza spaventare e senza mancare di rispetto a nessuno, abbiamo in programma un piano di cambiamento profondo di questo personale: occorre introdurre giovani motivati e con conoscenze amministrative e tecnologiche moderne, al fine di procedere a una rapida riforma di tutto il settore sanitario. Infine, i farmaci: non ne abbiamo. Va fatto uno sforzo per importarne di più, con criteri rigorosi e trasparenti.
Qualcuno potrebbe obiettare che quello che lei sta delineando è un libro dei sogni. Per fare tutto quello che ha appena detto occorrono i soldi che la Guinea-Bissau non ha (e inoltre non ha mai voluto investire nel settore della salute) e la possibilità di fare riforme. Le pare che esistano queste condizioni?
Quando il primo ministro mi ha telefonato per farmi la proposta di diventar ministro della salute mi trovavo in Italia. La prima condizione che ho posto è stata la libertà di poter scegliere il team di collaboratori con cui avrei dovuto lavorare. Il primo ministro mi ha dato tutte le garanzie, invitandomi ad andare a Bissau per parlare direttamente col presidente. Cosa che ho fatto. Dopo cinque ore di colloquio con Embaló, a casa sua, mi sono convinto che le condizioni per iniziare il lavoro esistono, così ho accettato.
Quanto ai finanziamenti, sono d’accordo: la Guinea-Bissau ha sempre avuto l’obiettivo di spendere almeno il 15% del suo bilancio nel settore sanitario, ma questo non è mai avvenuto. A oggi siamo a circa il 6%, un valore molto basso, che il presidente e il primo ministro si sono impegnati a migliorare rapidamente, già dal bilancio del 2021.
Al di là delle promesse, i soldi pubblici, anche se dovesse verificarsi un incremento della spesa sanitaria, sarebbero del tutto insufficienti per realizzare il suo programma. L’impressione è che, senza cospicui fondi internazionali, la situazione non potrà migliorare di molto. E l’altra impressione è che la scelta del dottor Cumbà come ministro sia stata motivata proprio da questo obiettivo: avere qualcuno fuori dalla mischia e credibile a livello internazionale per portare risorse fresche a Bissau.
È vero che senza aiuti internazionali il paese non potrà migliorare più di tanto. Da questo punto di vista ho già fatto sondaggi piuttosto approfonditi con entità come Banca mondiale e Fondo globale per la lotta a Aids, tubercolosi e malaria, che hanno mostrato grande disponibilità. È anche vero che la mia immagine di medico pediatra che mai si è immischiato in questioni politiche, può costituire una garanzia in più per i donatori internazionali quanto alla buona gestione dei fondi che ci metteranno a disposizione.
Ma questi fondi dovranno andare a un governo che in molti ritengono golpista, il cui tasso di corruzione è elevatissimo, basti pensare a quanto accaduto al suo predecessore…
Questo governo, è vero, è stato contestato e visto con sospetto da molte entità, nazionali e internazionali, soprattutto durante il suo primo anno di vita. Oggi, però, la situazione è in larga misura cambiata. La Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) e praticamente tutti i paesi partner hanno riconosciuto la legittimità di questo governo, quindi posso dire con certezza che questa situazione è superata.
Quanto alla corruzione, mi sento di darle ragione. Combatterla e difficilissimo qui come nei paesi occidentali. Nella sanità, però, abbiamo tracciato un piano in grado, se non di annullare, almeno di limitare la corruzione.
Il programma, finalizzato a informatizzare tutto il settore, ha anche lo scopo di combattere la corruzione: se riuscissimo a mettere tutte le informazioni sui sistemi informatici, in modo trasparente, a bandire gare pubbliche anch’esse con una logica di trasparenza o scelta delle offerte migliori, e non in base a simpatie personali, familiari o economiche, una parte del lavoro sarebbe fatta. Per questo la riforma del settore e l’entrata di nuovi funzionari, giovani e dinamici, risulta fondamentale anche per la lotta alla corruzione.
In mezzo a tutto questo, lei ha dovuto affrontare lo sciopero del personale ospedaliero. Qual è stato il suo approccio?
Il dialogo, ma anche la consapevolezza che il settore sanitario non può scioperare sine die. Quindi mi sono messo al tavolo coi sindacati per ascoltare le loro richieste, in gran parte legittime, però invitando a continuare le trattative in un contesto in cui medici e infermieri si trovino sul posto di lavoro. La trattativa non è semplice, ma mi pare di poter dire che esiste la buona volontà, dai due lati, di addivenire a una rapida soluzione, per il bene dei nostri concittadini.
Fino a questo momento abbiamo parlato di assistenza sanitaria, identificandola con quella ospedaliera. Tuttavia, in un paese come la Guinea-Bissau, relativamente piccolo ma con una varietà enorme di etnie, pratiche tradizionali, religioni e lingue, la questione della salute si lega molto al territorio. Sta pensando a un processo di decentralizzazione sanitaria?
La decentralizzazione sanitaria è fondamentale. Al di fuori della capitale Bissau non esiste alcuna struttura in grado di offrire cure per il Covid-19. In questo senso, siamo impegnati nella costruzione di una fabbrica di ossigeno, al fine di garantire almeno questo prezioso elemento per tutto il paese, in forma autonoma.
Inoltre, il nostro piano di decentralizzazione prevede, oltre alla creazione di condizioni tali da indurre i medici ad accettare di trasferirsi fuori Bissau, collaborazioni anche coi medici tradizionali, i curandeiros. Una riunione nel 2018 in Ghana, a cui partecipai, indicò chiaramente che anche loro devono far parte delle politiche sanitarie dei paesi della Cedeao.
Tuttavia, per quanto mi riguarda, esistono condizioni che essi devono rispettare: in primo luogo, deve esserci una costante collaborazione fra il medico ufficiale e i curatori tradizionali, i quali possono curare certe malattie con piante che loro conoscono e che il ministero deve certificare, ma anche capire fino a dove possono arrivare.
Nel caso in cui i loro trattamenti naturali non siano efficaci per una certa malattia o situazione, devono indirizzare i loro pazienti verso il medico ufficiale, incoraggiandoli a recarsi presso strutture ospedaliere disponibili. Soltanto così i medici tradizionali potranno aiutarci e potranno aiutare i loro concittadini.
Un’ultima questione: che cosa chiederebbe al suo secondo paese, l’Italia, per aiutarla ad aiutare la sanità della Guinea-Bissau?
In Italia ho sempre trovato grande disponibilità quando ho elaborato progetti per il mio paese, ricevendo l’aiuto di organizzazioni non governative. Ora, però, da ministro, vorrei cambiare un po’ la prospettiva, anche se il fatto che non esista a Bissau un’ambasciata italiana (esiste un console onorario), non aiuta nei contatti. Sto preparando un piano specifico da presentare alle autorità italiane.
L’Italia ha grande esperienza in campo medico e una tradizione importante negli aiuti ai paesi africani. Nei prossimi mesi, appena terminato il piano, verrò in Italia per presentarlo, e sono sicuro che il mio secondo paese non mi tradirà neanche questa volta.