All’origine di questa storia, sì, insomma, di quello che improvvidamente il presidente francese Emmanuel Macron ha chiamato «colpo di Stato nel colpo di Stato», c’è il capolavoro di ingenuità politica architettato da Bah N’Daw, primo presidente della transizione, con il suo primo ministro.
Vale a dire i mandatari civili, e non militari, del complicato processo di normalizzazione istituzionale in atto in Mali. Che avrebbe dovuto portare ad elezioni presidenziali e legislative il prossimo anno.
Capolavoro messo a punto, vogliamo supporre, di concerto con i responsabili di una françafrique che se è dura a morire, perlomeno come mentalità, non per questo impara dai propri errori, diventa più perspicace, più incline ad accogliere linee di buon senso, di là dell’arroganza di un comando/controllo che a sessant’anni dalle indipendenze, non può esistere più per nessuno in Africa.
Ingenuità politica? Qualcuno potrebbe dire “grave errore politico” e non si saprebbe dargli torto, a giudicare dai nudi fatti. Che sono presto detti. Sotto la spinta di una piazza sempre più insofferente, delle organizzazioni sindacali, della costellazione associativa che chiamiamo “società civile”, Moctar Ouane, alla guida del governo, si dimette per essere riconfermato subito dopo dal presidente della Repubblica con l’incarico di formare un nuovo esecutivo.
Nel rimpasto, scompaiono Sadio Camara e Modibo Koné, due colonnelli, cioè militari, cioè mandanti della transizione – non mandatari – azionisti di riferimento del processo istituzionale. Insomma, detentori del potere reale: insomma, quelli che contano e di cui ogni autorità, alla fine, deve tener conto. I due colonnelli erano ministri della difesa e, rispettivamente, della sicurezza.
Si dà il caso che i due ministri defenestrati fossero uomini del colonnello Assimi Goïta, vicepresidente della transizione, a sua volta specialmente intento ad occuparsi di esercito e sicurezza. Goïta è il trentottenne colonnello delle forze speciali, leader del golpe del 18 agosto scorso che ha messo fuori gioco IBK (Ibrahim Boubacar Keïta), il presidente democraticamente eletto, avviando quindi la presente fase politica maliana. E Goïta apprende dalla televisione, dice, il rimaneggiamento del governo.
La risposta è immediata, ed è quella che tutti conosciamo, secondo un copione già sperimentato con IBK in agosto: custodia cautelare delle alte cariche dello Stato al campo Sundiata di Kati, appena fuori Bamako, dimissionamento, riassetto delle cariche. Con la sua investitura ufficiale da parte della Corte suprema, oggi, 7 giugno, Goïta è il nuovo presidente della transizione, che provvederà alla nomina del nuovo primo ministro.
Per scrivere una futura storia delle condizioni in cui opera la magistratura in molte parti d’Africa, annotiamo che la legalizzazione della carica viene garantita a Goïta da una Corte costituzionale che così argomenta: 1. Constatata la “vacanza” della presidenza della transizione; 2. Si deve procedere alla designazione del nuovo presidente; 3. Che è, e non può che essere, il vicepresidente. Insomma, una farsa di stampo legista come ne abbiamo viste altrove e in altri momenti nello spazio politico subsahariano.
Il ruolo di Francia e Russia
E la Francia, direte voi? Beh, si dà il caso che uno dei due colonnelli, e precisamente Sadio Camara, fosse appena tornato da Mosca, dove aveva discusso le condizioni per la firma di un contratto per armamenti e materiale logistico. Guerra. Roba pesante.
Che la potenza ex-coloniale che mantiene sul terreno in Mali e nella fascia saheliana oltre 5mila soldati nel quadro dell’operazione anti-jihadista denominata Barkhane, la Francia, vede come fumo negli occhi. Come tutte le manovre russe in Africa, del resto. Specie a Sud del Sahara.
Neppure le saette francesi contro Goïta si fanno attendere. Ma nascono vecchie nel loro linguaggio e sono spuntate nella loro retorica. Ad esprimersi per prima è ad Accra la Cedeao, attraverso una specie di formula d’uso che condanna l’iniziativa e sospende il Mali dall’organizzazione. Seguono l’Ua, l’Onu e quindi, sulla stessa linea, Parigi e Washington.
Niente sanzioni da parte degli organismi africani, che giustamente le ritengono inefficaci e dunque inutilmente punitive, se non per il danno che possono arrecare alle popolazioni. La Francia dal suo canto non si ferma qui, ma procede sul terreno delle declaratorie senza costrutto. Sospende unilateralmente, infatti, la cooperazione militare con il Mali.
Sapendo bene che nec sine te nec tecum vivere possum, e che se le forze armate maliane hanno bisogno di quelle francesi, il corpo di spedizione di Parigi ha bisogno degli uomini che sanno muoversi e combattere sul terreno una guerra da cui comunque, e dopo tanti anni, non si riesce a venir fuori.
E ritorniamo, con ciò, al nocciolo della questione: la pacificazione del Paese, la normalizzazione costituzionale e politica, la ripresa di un processo di sviluppo che possa alleviare la povertà e ridurre le disuguaglianze di ogni tipo da cui è afflitta la società maliana.
Le retoriche, certo, fanno il loro corso lungo le rive del fiume Niger. La Francia dissimula dietro le istanze della democrazia le sue idiosincrasie geopolitiche nei confronti della Russia e, per vero, anche della Turchia, di cui si parla poco ma che ha trovato il modo di starci, in questa vicenda, in un inedito ruolo di supporto a Mosca.
Alleanze incerte
Dal suo canto, Goïta si trova a giocare una partita insperatamente tutta al rilancio. Diventato presidente della transizione per salvare le acquisizioni del colpo di Stato, il colonnello accusa il tandem N’Daw – Ouane di inanità politica, la stessa contro cui i militari erano scesi in campo in agosto.
E se allora – rivendica Goïta – l’esercito aveva fiancheggiato e portato a compimento l’azione dell’M5-RFP (Mouvement du 5 juin – Rassemblement des Forces Patriotiques), la coalizione politico-civile che aveva avviato la “rivolta di piazza” contro IBK, ora gli riesce facile invocare l’aiuto dello stesso Movimento perché supporti i militari e li aiuti a portare a compimento la transizione. Con un primo ministro uscito dai suoi ranghi, presumibilmente (favorito è Choguel Maïga, presidente del comitato strategico del movimento M5-RFP, ndr).
Di ciò si è parlato e si parlerà molto. Ma le partite vere si giocano su altri tavoli. Il primo riguarda la società politico-civile, a Bamako e altrove: troppo frammentata, sembrerebbe, per unirsi nel segno di un grande progetto comune capace di dare un futuro a un Paese ormai allo stremo. Il secondo ha a che fare con i territori in guerra, che hanno una geografia politica differenziata: al Centro e al Nord.
Ѐ molto improbabile che si possa arrivare da qualche parte per via militare. Bisogna dunque riprendere in mano il dossier costruito a partire dagli accordi di Algeri (che languono dal 2015) con una configurazione trasparente della leadership religiosa, islamica ma non islamista, che dovrà svolgere un delicato ruolo di mediazione in questa faccenda: si tratti dell’imam Dicko o dello sceriffo Haidara o delle istituzioni rappresentative musulmane.
Infine, bisogna pensare alle popolazioni insediate, smettendola di fare come se di là dai perimetri delle città non esistesse altro. Poche bolle urbane securizzate, e fuori, violenza islamista, traffici d’ogni sorta attraverso il Sahara (droga, armi, esseri umani), costituzione di innumerevoli milizie di autodifesa, tensioni intercomunitarie che fanno ormai più vittime della stessa guerra. Nei villaggi la gente non viene più curata. I bambini non vanno più a scuola. Lo Stato non esiste più da tempo.
Mentre il meraviglioso ecosistema del delta interno del Niger, con le sue tradizioni culturali, le sue organizzazioni professionali, le sue articolazioni sociali, sta velocemente scomparendo nel silenzio generale.