Rivendicare senza vergogna le derive del passato e al tempo stesso promettere un futuro migliore è sintomatico di una schizofrenia inestricabile o indicativo del più crudele cinismo. Perché rinunciare al male, proiettandosi verso il meglio, richiede all’uomo di provare rimorso per questo male. In altre parole, agire per il bene, implica assolutamente che si rinneghi sinceramente e attivamente il male.
Dopo il colpo di Stato all’indomani della morte dell’ex Gran Maresciallo e presidente Idriss Deby, avvenuta il 20 aprile scorso, le menti ipocrite al potere cercano, senza argomenti, se non la loro sterile logorrea, di spiegare che il Ciad ha imboccato la strada di una svolta decisiva.
In nome di questa angusta litania, chi la pensa diversamente viene etichettato come di cattivo auspicio. Eppure, ogni simbolo, ogni manifestazione quotidiana delle nostre nuove autorità, fornisce solo la prova che l’emancipazione del nostro popolo rimarrà un’utopia per molto tempo. Ci sono almeno tre tipi di argomenti a sostegno di tale tesi.
La prima spiegazione è di natura intellettuale. Tutti coloro che sono legati dall’immortale, nondimeno defunto, maresciallo Deby, persistono nel rivendicare con la loro eterna arroganza l’eredità del grande capo di ieri. Un’eredità che ogni coscienza onesta e obiettiva sa essere composta da rovine di ogni genere, fanghiglia dell’immoralità e incessante disseminazione dell’odio nei cuori dei ciadiani.
Pretendere un tale lascito di disastro umano, al punto da esibire un orgoglio osceno, non è né più né meno che prometterci un continuum della degenerazione della nostra patria. Non avendo avuto il coraggio di ammettere che il defunto uomo forte non avrebbe fatto altro che male a questo paese, i suoi ciechi lodatori avrebbero potuto tacere, per evitare di tentare così invano di dipingere in paradiso l’antico inferno di tanti anni, lasciato in eredità al nostro popolo.
Ѐ davvero sciocco, dunque, sperare in una tale rivoluzione da parte di piccole anime senza pudore che, con la loro illimitata servitù, hanno chiaramente contribuito alla tragica fine del capo che davano per immortale!
In secondo luogo, la spiegazione è politica. In effetti, il nuovo ex primo ministro, Albert Pahimi Padacké, nominato dai becchini del nostro ordine costituzionale, è l’incarnazione vivente dello status quo. A maggior ragione, ha richiamato intorno a sé una gran parte degli avvoltoi che circondavano Deby per cannibalizzare le prerogative della Repubblica e dello Stato di diritto.
Per chi ricorda ancora il suo programma politico falsamente declinato davanti all’ormai fantasmatica rappresentanza nazionale, il capo del governo di transizione non sarà privato di scandire ripetutamente i riferimenti al compianto maresciallo. Emozione finta di fronte a una tragedia ancora in fiamme o sincera lealtà che il premier spera di far risuonare oltre la tomba?
Solo una cosa sembra certa: il premier sembra proclamare la sua devozione al dittatore ucciso, per conservare le grazie, i favori, l’unzione di suo figlio Mahamat Deby, erede al trono. Pertanto, sperare in qualcosa di meglio di quello che abbiamo già sperimentato sarebbe imprudente. La schiacciante orda antirepubblicana di ieri continuerà a scavare la fossa della Repubblica.
Veniamo infine alle considerazioni sociologiche: la promessa inclusione di tutti i figli e figlie del paese nella gestione della cosa pubblica, fa già parte della detestabile consuetudine di un tempo. Cioè tutto a parole e niente nei fatti, che si tratti della banda usurpatrice del potere politico, del governo di transizione o di altre cariche nominative finora ricoperte. Lo squilibrio etno-regionale resta vertiginoso.
L’antico serpente della divisione, l’antica lebbra dell’esclusione, continuano ad avvelenarci con la loro sostanza mortale. Ahimè! i rari individui chiamati a far parte di questo sfacciato clan al potere tentano di nascondere la realtà presentandosi come esempi di inclusione.
Sono idioti che, per giustificare questo disgustoso stato di cose, cadono in una comparazione, tanto infantile quanto sciocca, con il primissimo regime ciadiano, quello del dittatore Hissene Habré, al potere dal 1982 al 1990. Scalzato da un colpo di Stato del suo ex capo di stato maggiore, l’allora giovanissimo Idriss Deby. Questo paragone è davvero abominevole per la semplice ragione che tali tentativi di confronto suggeriscono che il male non sarebbe mai assoluto ma sempre relativo. Una mente sana, non è questo che ci manca?
Con tante inclinazioni viziose e passioni tossiche, dove trovare le ragioni e l’energia della speranza? La nostra società rimane immersa, e per molto tempo ancora, nel fetore dei controvalori, perché alcuni non solo trovano la loro salvezza lì, ma vedono nella virtù, nella rettitudine, nei valori, l’ultima minaccia.
Il Consiglio militare di transizione (Cmt), che ha stracciato la Costituzione e si è autoproclamato organo supremo alla guida del paese appena dopo l’uccisione di Deby, potrebbe senza dubbio non durare a lungo nella sua forma attuale, a causa della sua impotenza intellettuale, delle sue divagazioni discorsive e del suo dilettantismo politico. Tuttavia, il suo piano per mantenere il potere a tutti i costi lascia intravedere uno spiraglio sostenibile.
In ogni caso, il cambiamento resta la certezza più implacabile dell’uomo e della società. Quindi cambieremo sicuramente, ma mai con gli uomini e le donne che ci governano oggi. Mai con ricette che non hanno funzionato da nessuna parte ma che si ostinano a imporci. La nostra emancipazione prima o poi arriverà, ma solo il sacrificio supremo del popolo la farà vivere.