Decolonizzare la narrazione, ma anche la conoscenza, sui migranti e sulle migrazioni. È il solo modo per rendere giustizia alla realtà e smettere di dare visioni distorte e scorrette sui flussi migratori. Contrariamente a quanto raccontano i media e contrariamente al focus delle politiche europee, non sono le migrazioni lungo le rotte Sud-Nord del mondo quelle più massicce ma quelle interne, quelle che dal Sud rimangono al Sud. In Africa come in Asia o in America Latina.
Se ne parla meno, se ne conoscono meno le dinamiche e per questo si rischia di fare scelte sbagliate, di riproporre errori e di continuare a criminalizzare territori e persone verso i quali occorrerebbero, invece, decisioni e politiche ampie e lungimiranti. Decisioni che davvero incidano sullo sviluppo, le disuguaglianze, le crisi umanitarie.
Spostare l’asse della conoscenza e della narrazione in tema di migrazioni – finora dominata da media, politici e ricercatori del Nord del mondo – è lo scopo del Mideq (Migration for Development and Equality), un hub di circa 90 ricercatori che stanno studiando il movimento lungo sei corridoi migratori tra 12 paesi del Sud del mondo.
Una delle rotte riguarda Haiti e Brasile. Secondo lo studio del Mideq, dopo il terremoto del 2010 il paese sudamericano è diventato la meta principale per i migranti haitiani. Anche se agli anni d’oro del boom economico e della ricerca di manodopera prima per la Coppa del mondo del 2014, poi dei Giochi Olimpici del 2016, sono seguiti anni di crisi che hanno avuto anche effetto sull’accoglienza dei nuovi arrivati.
Altro movimento migratorio esplorato è quello che parte dall’Etiopia. Si calcola che siano 3 milioni gli etiopici che vivono all’estero, con una notevole percentuale in Sudafrica, destinazione di riferimento degli ultimi anni. Persone – tra cui tanti minori – che fuggono da conflitti e ingiustizie sociali. Viaggi gestiti da trafficanti di esseri umani ma per molti il lungo percorso ha significato rifarsi una vita, aprire un’attività – anche se spesso informale – ed entrare nel sistema di welfare che il paese riconosce anche ai migranti.
Dall’Egitto, invece, sono partite almeno 600mila persone che attualmente lavorano in Giordania che dopo l’Arabia Saudita ospita il maggior numero di migranti egiziani. Altro corridoio Sud-Sud esaminato è quello che va dal Nepal in Malesia. Un’emigrazione consistente che permette al Nepal di ricevere quasi un terzo del suo prodotto interno lordo dalle rimesse.
C’è poi la rotta che va dal Burkina Faso verso la Costa d’Avorio, facilitata dalla vicinanza tra i due paesi e dal libero movimento tra le frontiere garantito dal sistema della Cedeao, la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale. Il 90% dei burkinabé ha dichiarato di aver deciso di spostarsi alla ricerca di un lavoro retribuito. Il rapporto tra ivoriani e bukinabé non è stato, e non è, sempre facile. E oggi la diffidenza è anche aumentata a causa dell’incremento del terrorismo jihadista che sta interessando da anni il Sahel.
Un altro interessante corridoio studiato dai ricercatori del Mideq è quello che va dalla Cina al Ghana. Secondo una recente stima, la popolazione migrante cinese in Ghana conterebbe tra le 10 e le 30mila persone. Ma anche la migrazione dei ghaneani in Cina ha segnato un incremento a partire dagli anni ’90. Per motivi di studio, soprattutto, ma anche commercio e turismo.
Il Migration for Development and Equality è uno dei pochi progetti di ricerca al mondo dedicati allo studio della migrazione Sud-Sud e servirà a colmare il divario di conoscenze sul tema (anche se quest’anno ha visto un calo del 70% dei finanziamenti). E per allargare la riflessione è stato anche prodotto un breve video animato che in modo semplice e chiaro sottolinea le dinamiche dei movimenti umani (una volta eravamo tutti migranti) e l’importanza di considerarne modalità e necessità, compresa quella di modificare il racconto che li riguarda.
«Decolonizzare la storia significa che la scrittura sulla migrazione, la ricerca, la narrazione dovrebbero essere guidate da studiosi del Sud del mondo», ha detto Joseph Teye, direttore del Center for Migration Studies presso l’Università del Ghana e co-direttore del Mideq. In una lunga intervista a The Humanitarian, l’accademico si è concentrato sulla relazione tra migrazione Sud-Sud e crisi umanitarie, sulle conseguenze politiche dell’attenzione sproporzionata sulla migrazione verso il Nord e, appunto, sull’urgenza di decolonizzare e riformulare la storia della migrazione.
Perché, dopotutto, questo è ciò che dicono i dati (riferimento 2015): il 37% del totale dei migranti a livello globale (90.2 milioni) si muovono all’interno del Sud del pianeta mentre è il 35% che emigra verso il Nord. E per quanto riguarda i rifugiati – altro tema forte della stampa occidentale – l’85% è ospitato nel Sud del mondo, spesso all’interno di paesi o regioni confinanti. Sono 32 milioni gli sfollati interni in Africa.
«Di solito, la narrazione suggerisce un esodo dal Sud al Nord del mondo. Ma osserviamo, per esempio, l’Africa occidentale, descritta come una fonte di migrazione irregolare verso l’Europa. Qui circa il 64% dei migranti si sposta verso un’altra destinazione nell’Africa occidentale. Era l’80% nel 1990». Un calo, si spiega, che non è dovuto al fatto che si stiano spostando al di fuori del continente, ma che ora ci sono nuove destinazioni oltre l’Africa occidentale, come il Gabon o la Guinea Equatoriale.
Flussi dal Nord Africa si spostano, invece, sempre più – come afferma lo studio in questione – verso il Medio Oriente. Non conoscere queste nuove rotte – alcune delle quali sono consolidate da tempo – significa fare scelte sbagliate. L’attenzione sulle migrazioni cosiddette irregolari, fuori dall’Africa, ha causato per esempio la politica di esternalizzazione dell’Unione europea che riguarda anche alcuni paesi dell’Africa occidentale. Tra questi il Niger, strada di accesso verso il Nord Africa e poi l’Europa.
«Tali politiche che si basano sul presupposto che tutti nell’Africa occidentale si stiano muovendo verso l’Europa, cercano di fatto di limitare la mobilità oltre quel territorio», dice Teye. Lo sguardo concentrato sulle migrazioni esterne, inoltre, fa perdere di vista i benefici che le diaspore interne potrebbero portare allo sviluppo, ma anche la necessità di una loro maggiore protezione.
Molta della migrazione interna è dovuta a conflitti e agli effetti della crisi climatica, carestie e insicurezza alimentare. E in questo caso a muoversi sono quelli che non hanno neanche la possibilità di tentare il viaggio per arrivare in Europa.
Che la strada delle migrazioni sia cambiata, anzi che non sia esattamente quella raccontata nell’emisfero occidentale, si sa da tempo. Lo ha detto in modo circostanziato un anno fa – ma studi erano già stati precedentemente proposti – l’Africa Migration Report – a cura dell’Unione africana e dello Iom (Organizzazione internazionale per le migrazioni). Sfidare la narrativa era, guarda caso, il titolo del lavoro.
Una cosa è chiara: la maggior parte dei migranti africani non attraversa il mare, ma i confini terrestri all’interno del continente. E si muove all’interno della regione in cui si trova il paese di provenienza.
La narrazione europea, inoltre, continua a non tenere in conto che il 94% degli africani che si trasferiscono in un altro continente lo fa in modo regolare e che gli africani sono solo il 14% del totale della popolazione migrante. Un’ignoranza – consapevole, visto la mole di dati e studi a disposizione che dovrebbero convincere al cambio di visione e narrativa – che influenza a cascata le scelte politiche, le normative sull’immigrazione, l’opinione pubblica. E che, forse è il caso di dirlo, produce errori su errori.