Parlando con i giornalisti durante la conferenza stampa settimanale dell’Unione africana (Ua), sulla situazione della pandemia nel continente, Strive Masiyiwa, inviato speciale dell’organizzazione nel gruppo per l’acquisizione dei vaccini di contrasto al Covid-19 (Covid-19 African Vaccine Acquisition Task Team), descriveva le decisioni dell’Unione europea in materia di Green Pass come assurde.
Era l’inizio di luglio. In Europa stava per entrare in vigore il lasciapassare che facilitava i movimenti, tra gli altri, a chi era vaccinato e gli africani scoprivano che il vaccino più largamente usato nel continente, il Covishield, non era compreso nella lista di quelli approvati e dunque non avrebbero potuto entrare e circolare liberamente, o quasi, sul territorio europeo.
Eppure, continuava Masiyiwa, proprio l’Europa aveva spinto l’Africa ad utilizzare il Covisheld che altro non è che AstraZeneca prodotto, su licenza, dal Serum Institute of India che produce in media ogni anno un miliardo e mezzo di dosi dei vaccini più utilizzati al mondo, quali quelli contro la poliomelite, il morbillo, la rosolia, l’epatite B, il tetano e molti altri. Tutti vaccini accreditati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e usati nelle sue campagne vaccinali in 170 paesi. Si stima che il 65% dei bambini al mondo sia stato vaccinato con almeno uno dei vaccini prodotti da questo istituto sierologico.
L’India, insomma, non è l’ultima arrivata nel campo della produzione dei vaccini, anzi è decisamente il paese di punta. Vi si trovano alcuni dei produttori più importanti del settore, grazie ai quali fornisce il 60% di tutti i vaccini usati nel mondo. Il Serum Institute of India, che produce il Covisheld, è classificato come la più importante azienda biotecnologica del paese.
Il funzionario dell’Unione africana ha poi continuato ricordando che proprio l’Europa, Unione europea e diversi paesi membri, sono tra i maggiori finanziatori di Covax, l’ente di coordinamento della distribuzione dei vaccini per il Covid-19, che ha comprato il Covisheld per distribuirlo in Africa.
Dunque si configura la ben strana circostanza di un donatore che non considera valido un vaccino da lui sponsorizzato e acquistato con i suoi propri fondi. E ha concluso: «Non perderò tempo a discutere questo punto, è evidente dove sta il problema», facendo capire di ritenere la politica europea in materia puramente discriminatoria, cioè un altro ostacolo alla sempre più difficile impresa per un africano di raggiungere l’Europa con le carte in regola.
La stessa frustrazione è stata espressa dal dotto John Nkengasong, direttore del Centro africano per il controllo e la prevenzione delle malattie (Africa Centres for Disease Control and Prevention – Africa Cdc). Altri, come il ministro della sanità del Kenya, si sono detti preoccupati per l’impatto che la decisione europea potrebbe avere sulla credibilità del vaccino fra la popolazione.
Non sarà facile far capire che la decisione è di natura burocratica, in quanto l’Ema, l’autorità europea che valuta i farmaci, non ha preso – per ora, si spera – in considerazione il Covishield. Molti potrebbero pensare che vengono loro riservati vaccini di serie B e decidere di non vaccinarsi. Ne potrebbero derivare gravi conseguenze per la salute pubblica e anche per l’economia del’intero continente.
Ma la preoccupazione sulla disponibilità degli africani a farsi vaccinare è per ora prematura. Le dosi sono ancora scarsissime nel continente e questo è l’altro contenzioso con l’Europa, che ne produce una gran quantità ma non ne ha mandato neppure una in Africa.
Ora che le sue campagne vaccinali hanno raggiunto una gran parte della popolazione, sarebbe tempo di aprire il mercato anche agli altri paesi, dicono i funzionari dell’Unione africana che in più sottolineano di non chiedere donazioni ma di essere disponibili a pagare per salvaguardare la salute dei propri cittadini.
Finora hanno dovuto affidarsi a Covax, che, sulla carta, avrebbe dovuto garantire un’equa distribuzione dei vaccini nel mondo, ma non ha rispettato neppure lontanamente gli impegni presi. Avrebbe dovuto consegnare 700 milioni di dosi ai paesi africani entro la fine del 2021, ma in giugno ne aveva consegnate solo circa 50 milioni.
Il problema di Covax, però, sta nel modo stesso in cui è stato concepito, come ci spiega Nicoletta Dentico, responsabile del programma di salute globale di Society for International Development (Sid).
Intanto, in Africa molti paesi stanno affrontando una terza ondata di contagio, spinta, come ovunque, dalla variante Delta. Nell’ultima settimana in Marocco ci sono stati il 90% di positivi e il 49% di morti in più rispetto a quella precedente; in Senegal il 112% di positivi e il 115% di morti; in Kenya il 28% di positivi e il 131% di morti. Pochissimi esempi, tra i molti possibili. Anche i numeri assoluti sono importanti: quasi 6 milioni e 400mila contagiati e più di 161mila morti.
Numeri che, a detta delle stesse autorità competenti, sono fortemente sottostimati a causa della fragilità dei sistemi sanitari di molti paesi e della conseguente difficoltà a controllare puntualmente l’evolversi del contagio sul proprio territorio. Nel continente fin dall’inizio sono scarseggiati anche gli strumenti di monitoraggio, come i tamponi, i reagenti e i laboratori di analisi.
In Kenya, ad esempio, sono stati effettuati poco più di 2 milioni di test in totale dall’inizio della pandemia, su una popolazione stimata di 55 milioni di abitanti; in Etiopia poco meno di 3 milioni, su una popolazione di 117 milioni circa.
A fronte di questa situazione, la popolazione che ha ricevuto almeno una dose di vaccino è meno del 2%. Si capisce, perciò, la preoccupazione dei responsabili della sanità pubblica del continente che si sentono soli di fronti ad un problema oggettivamente più grande delle loro possibilità di intervento. E si capisce anche perché chiedano all’Europa di decidere se vuole davvero sostenere l’Africa nella lotta globale contro il virus.
Ci sarebbe un modo per mettere a disposizione più vaccini: quello di produrne di più. Sarebbe necessario sospendere temporaneamente i brevetti e liberalizzare la produzione fino al controllo della pandemia. Davanti ad un’emergenza planetaria sarebbe previsto anche dal trattato di Marrakesh, dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc/Wto), firmato da 123 paesi il 15 aprile 1994, dove si parla anche di protezione della proprietà intellettuale.
Recentemente, la proposta di sospendere temporaneamente i brevetti è stata avanzata perfino dal presidente americano Joe Biden, ed è stata rintuzzata immediatamente dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dai paesi europei in genere. I brevetti, si sa, significano il controllo di un giro d’affari enorme e dunque, nel nostro sistema economico, sono intoccabili. Che cosa significhino i brevetti nel campo sanitario ce lo dice ancora Nicoletta Dentico.
Nei giorni scorsi il presidente dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, parlando a Tokyo in occasione dei giochi olimpici, ha sottolineato ancora una volta che dalla pandemia si esce insieme e che si dovrà fare ogni sforzo per vaccinare il 70% della popolazione in ogni paese del mondo nell’arco di un anno. Ha anche detto che non sarà facile se non ci sarà una reale solidarietà. Nelle condizioni attuali, almeno in Africa, sarà impossibile.
Intanto almeno una cosa è chiara nella comunicazione sulla pandemia: se il virus circola, varia e nessuno può prevedere quanto pericolose potranno essere le varianti. Lo stiamo sperimentando ora con la variante Delta. Abbiamo anche toccato con mano che i confini non fermano il virus e dunque dovrebbe essere interesse prioritario di tutti che la sua circolazione venga bloccata al più presto ovunque nel mondo.
Le politiche europee invece, volte a garantire la propria sicurezza all’interno dei fragili confini, a proteggere le proprie economie innanzitutto, si rivelano ancora una volta miopi e destinate, purtroppo, ad avere gravi conseguenze globali, a partire dai cittadini europei stessi.