Nei giorni scorsi il Consiglio dei ministri del Sudan ha approvato all’unanimità una proposta di legge in cui si stabilisce il ritorno del paese nell’ambito dello Statuto di Roma che ha istituito la Corte penale internazionale (Cpi), competente per i reati di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità.
Ѐ un primo passo. Il disegno di legge dovrà essere discusso ed approvato in una seduta congiunta del Consiglio dei ministri e del Consiglio sovrano e il percorso potrebbe rivelarsi più difficile e complesso di quanto sia stato finora.
Ma la volontà politica, almeno dell’ala civile delle istituzioni sudanesi, è chiara. Nell’annunciarne l’approvazione, il primo ministro Abdallah Hamdok ha dichiarato: «Giustizia e responsabilità per le proprie azioni sono il solido fondamento del nuovo Sudan che tutti noi cerchiamo di costruire…».
L’impegno a ratificare tutti gli accordi internazionali in materia di diritti umani e di giustizia è contenuto sia nel documento costituzionale vigente in questo periodo transitorio, sia nell’accordo di pace di Juba, firmato lo scorso ottobre con la maggioranza dei gruppi dell’opposizione armata, ed è considerato alla stregua di un punto di svolta nella collocazione internazionale del paese.
Dunque l’approvazione del ritorno tra i paesi firmatari dello Statuto di Roma dovrebbe essere considerato quasi un atto dovuto. Se non fosse che a Khartoum molti, soprattutto nei ranghi militari ma non solo, potrebbero sentirsi minacciati, anche personalmente, da una simile rinnovata adesione.
Il Sudan aveva aderito allo Statuto di Roma nel 2000, ma ne era uscito nel 2008, in concomitanza con l’apertura delle indagini relative alla condotta della guerra in Darfur in cui era accusato, tra gli altri, l’allora presidente Omar El-Bashir. La richiesta di un’indagine a carico suo e di altri eminenti personaggi della leadership del regime sudanese era stata depositata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nel 2005.
Nel 2009, al termine di un’indagine osteggiata in tutti i modi dall’allora governo islamista di Khartoum, era stato spiccato nei suoi confronti un primo mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità seguito, nel 2010, da un altro per genocidio. In tutto si trattava di 10 capi d’accusa gravissimi e infamanti, di cui il deposto presidente potrebbe essere presto chiamato a rispondere.
Infatti, la decisione di consegnare Omar El-Bashir e gli altri accusati alla Cpi è già stata presa dalle istituzioni sudanesi l’11 febbraio dell’anno scorso, non senza qualche resistenza da parte di chi sosteneva, con sempre meno convinzione, almeno pubblicamente, che doveva piuttosto essere portato davanti ad un tribunale sudanese.
Ma l’ex presidente, già condannato a pochi anni di carcere per reati valutari e corruzione, deve rispondere ancora in patria dei reati relativi al colpo di stato del 1989, con cui aveva preso il potere. Solo in seguito potrà essere consegnato alla Cpi per rispondere delle accuse relative ai crimini commessi in Darfur. Si può scommettere che non avverrà senza altri tentativi di sottrarlo alla giustizia internazionale.
Per ora l’unico sudanese consegnato alla Corte penale internazionale è Ali Kushayb, uno dei più importanti capi delle milizie janjaweed, accusato di innumerevoli crimini perpetrati in Darfur. Contro di lui era stato spiccato mandato di cattura internazionale nel 2007. Kushayb si era poi consegnato alle autorità di polizia nella Repubblica Centrafricana. Il 9 giugno dell’anno scorso è stato trasferito all’Aja, dove la Cpi ha sede. Il processo a suo carico è iniziato lo scorso 24 maggio.
Insieme a Kushayb era stato indagato e accusato Ahmed Haroun, potente sottosegretario al ministero degli interni negli anni più bui del conflitto darfuriano ed esponente di spicco del passato regime, ora in carcere. Fatou Bensouda, pubblico ministero della Cpi che ha recentemente finito il suo mandato, ne ha chiesto più volte l’estradizione perché potesse essere giudicato insieme al suo coimputato, ma senza successo.
Speriamo abbia miglior fortuna il suo successore, Karim Asad Ahmad Khan, avvocato inglese di origini pachistane, specializzato in diritto penale internazionale. Il rientro del Sudan nel Trattato di Roma sarebbe certamente una forte spinta a far giustizia degli efferati crimini perpetrati in Darfur, e non solo.