Le drammatiche conseguenze del ritiro delle truppe di Washington dall’Afghanistan sono seguite con un misto di trepidazione e gioia a migliaia di chilometri di distanza, nella regione africana del Sahel, dove anche un’altra potenza straniera, la Francia, ha manifestato la volontà di porre fine alla sua lunga operazione di contro-insorgenza, almeno nella forma attuale.
Nelle ultime due settimane, l’analogia è stata richiamata da diversi organi d’informazione italiani, che hanno paragonato la crisi afghana a quella prodotta dall’insorgenza jihadista nel Sahel. Una comparazione che lascia spazio a non poche riflessioni, perché se è possibile individuare evidenti consonanze è inoppugnabile che le due aree di crisi presentano sostanziali differenze.
Punti in comune
Nell’esaminare i punti in comune tra i due conflitti è immediato annotare che entrambe sono caratterizzati dall’ideologia islamista e da lunghi anni di coinvolgimento di truppe straniere in paesi con governi deboli e instabili.
È anche vero che lo scenario afghano potrebbe reiterarsi in un paese come il Mali gravato da corruzione endemica, forte polarizzazione politica e dalla fragilità delle forze armate. Non è così peregrina l’ipotesi che in un prossimo futuro il Mali possa essere dominato dai jihadisti, come stava accadendo all’inizio del 2013, quando con estrema rapidità l’allora presidente francese François Hollande avviò l’operazione Serval per fornire un provvidenziale aiuto militare e logistico alle forze armate maliane.
Come è altrettanto innegabile che il movimento dei taleban emerse nel settembre 1994, sotto la guida del mullah Mohammed Omar, nel mezzo della guerra civile iniziata nel 1992. Dopo aver preso il controllo di Kandahar, gli studenti del Corano cavalcarono l’onda dei successi iniziali e nell’arco di due anni riuscirono a conquistare Kabul, dopo aver espugnato Jalalabad e Herat.
Una parabola più o meno analoga identifica gli estremisti somali di al-Shabaab, inizialmente affiliati all’Unione delle corti islamiche spuntate nell’estate del 2006 per riportare l’ordine nel paese del Corno d’Africa, alla fine di una devastante guerra civile iniziata nel 1991. Il gruppo islamista ottenne una legittimazione popolare dopo che truppe etiopiche invasero il paese, nel dicembre 2006, su pressione del Governo federale di transizione somalo. Al-Shabaab si mise a capo della muqawama (resistenza) anti-etiopica e dall’inizio del 2007 fino alla seconda metà del 2010, assunse il controllo di buona parte del territorio somalo.
Le sostanziali diversità
Le differenze tra i due scenari di crisi sono più nette, a partire dal fatto che la miriade di gruppi jihadisti attivi nel Sahel non ha le radici profonde e l’esperienza dei taleban, che già nella seconda metà degli anni novanta detenevano il potere in Afghanistan. Inoltre, l’estremismo violento nel Sahel non riguarda il territorio di un singolo stato, ma estese aree periferiche, da almeno una decade oggetto di incessante decomposizione e ricomposizione.
Nel rapportare le due aree di crisi, è stato fatto anche richiamo all’imminente fine dell’operazione militare Barkhane nel Sahel, annunciata lo scorso 10 giugno dal presidente francese Emmanuel Macron, trascurando il fatto che la Barkhane, che dal primo agosto 2014 ha integrato la Serval in Mali e l’Épervier in Ciad, non darà corso a un ritiro totale e definitivo come avvenuto in Afghanistan.
Il contingente francese, che ora conta 5.100 uomini dispiegati tra Mali, Niger e Ciad, dovrebbe essere ridotto del 40%, diminuendo l’impegno della Francia a circa 2.500 unità. Al tempo stesso, i 500 commando delle forze speciali francesi della Task Force Sabre continueranno a dare la caccia ai terroristi affiliati ad al-Qaida e allo Stato islamico.
La Francia manterrà la guida del nuovo contingente interforze europeo Takuba (nella locale lingua tuareg “spada”), che lo scorso 2 aprile è diventato operativo con la partecipazione di quasi una dozzina di paesi europei, tra cui Estonia, Italia, Danimarca e Norvegia.
Crescita del 33% della violenza islamista nel Sahel
Nella pratica Macron, più che ritirarsi dal Sahel sta tentando di adeguare la strategia per fermare l’insorgenza jihadista nella vasta regione desertica, che dalla metà del 2016 ha prodotto l’escalation più drammatica della violenza in Africa. Come prova il nuovo report pubblicato dal Centro di studi strategici sull’Africa (Acss, nell’acronimo inglese) con sede a Washington, che negli ultimi dodici mesi ha registrato l’aumento del 33% della violenza islamista nel Sahel.
A riguardo, c’è un’altra analogia con quanto sta accadendo ora in Afghanistan: i sanguinosi attentati contro i civili che sta mettendo in atto l’ISIS-K, la costola afghana dello Stato islamico attiva nella provincia del Khorasan, non potranno far altro che favorire i taleban. Allo stesso modo in cui i brutali attacchi e le razzie di interi villaggi perpetrati dallo Stato islamico nel Grande Sahara (Isgs) fanno apparire il Jnim meno spietato e più “moderato” agli occhi della popolazione locale.
Lo stesso vale per il Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’Awati wal-Jihad (Jas), una delle due fazioni di Boko Haram, fino a tre mesi fa guidata dal defunto Abubakar Shekau, tristemente noto per le stragi di civili all’interno delle moschee e di affollati mercati nel nordest della Nigeria.
Un approccio molto più radicale rispetto a quello adottato dall’Islamic State West Africa Province (Iswap), che ha determinato una perdita significativa di consensi e possibili adesioni verso la fazione Jas. Al contrario, l’attenzione ostentata dall’Iswap ai bisogni della popolazione nei territori sotto il suo controllo ha contribuito a rafforzarne la popolarità. Anche se le comunità locali sono ben consapevoli che pur concentrando i suoi attacchi contro obiettivi militari, l’Iswap non può non infliggere danni collaterali anche ai civili.
Infine, c’è un’altra similitudine assai inquietante che accomuna i due scenari di crisi. Una similitudine che deriva dalla pazienza e dalla tenacia con cui i taleban hanno combattuto gli americani, sapendo che alla fine sarebbero riusciti a prevalere sul nemico. La stessa pazienza e tenacia che stanno dimostrando i gruppi estremisti militanti attivi nel Sahel, che sembrano disposti ad aspettare il logoramento delle forze straniere convinti che alla fine se ne andranno.