Per le strade di Elmina, Saidiya Hartman è una obruni, una straniera. È una donna nera come le tante che incontra per strada. Ma il nero non la rende come loro. Le ghaneane che incrocia lo capiscono da uno sguardo che non è una nera africana. La terra dei suoi avi riconosce i “suoi”, distingue chi non le appartiene, chi non ha radici lì.
Anche se è lì che le cerca. Perché vige un detto “dua hommire”: un fungo che cresce sull’albero non ha terreno profondo, non appartiene alla terra. Così, una donna che ha origini schiave, ma è nata a cresciuta a New York, è altro dall’Africa. Non contano le discendenze. D’altra parte, la stessa Hartman si vive così: una donna senza radici, che cerca disperatamente di capire chi è davvero.
È convinta che, tornando in Ghana, ripercorrendo una delle nove rotte della tratta degli schiavi, potrà rimpossessarsi delle proprie radici, ricostruire sé stessa, a partire da lì, dove tutto ebbe inizio. Il libro intreccia la storia di colei che lo scrive a quella più ampia degli schiavi della rotta atlantica. Mescolando storia a Storia; interrogandosi su cosa siano memoria e identità. Scoprendo quanto il tempo di oggi manchi di entrambe: siamo privi di memoria, ma rivendichiamo identità.
Come si fa a sapere chi si è, se non si ha memoria di chi si è stati? Come capire come sia stato possibile diventare, se non si ha memoria di cosa ci ha fatto diventare ciò che siamo, o meglio, diciamo di essere? Una necessità, quella della scrittrice, che nasce dalla consapevolezza di saper poco della storia della propria famiglia. Praticamente niente di ciò che scopre nella biblioteca di Yale: tra i nomi delle famiglie schiave arrivate in Alabama c’è anche quello della trisnonna materna.
Un passato di cui nessuno le ha mai parlato, né intende farlo ora, quando pone la domanda diretta. E allora forse è necessario andare a cercare questo fantasma, dare parola a ciò che sembra essere indicibile. Perdere la madre, per ritrovarsi. Con questo intento comincia il viaggio e il racconto in Ghana, paese che ancora oggi possiede più segrete, prigioni e galere di schiavi di tutta l’Africa occidentale. Dovrà vagare molto e arrivare fino a Gwolu, la sua ultima tappa.
Imparare a capovolgere lo sguardo, a leggere la storia non pensando a sé stessa e agli schiavi ma alle lotte, a chi era rimasto ed era stato capace di costruire umanità nuove. Spogliarsi di un’idea precostruita, unica modalità per capire la realtà. Saper ascoltare canti di guerra e ribellione e non lamenti e canti di dolore.
Non incaponirsi nella ricerca di una storia di sconfitta, ma saper vedere come «avevano fabbricato una narrazione di liberazione in cui la gloria del passato forniva l’accesso a un futuro redento». Vi è nel passato la potenzialità di inventare un futuro differente. Il passato occorre di certo conoscerlo, per oltrepassarlo.