Li hai mai contati trecentosessanta secondi? E poi altri trecentosessanta? E adesso prova a pensare alle migliaia di vite umane appese a quel numero. La probabilità che un uomo caduto in mare possa essere avvistato a distanza d’orizzonte – non più di 6 miglia nautiche, 9 chilometri – da una natante di passaggio, è infatti di 1 ogni 6 minuti.
Ѐ una delle prime cose che ti insegnano sulle navi di salvataggio dei migranti. Ed è il modo migliore per spiegarti che quando stai a bordo devi tenere lo sguardo sempre rivolto all’esterno. Perché una probabilità ogni sei minuti è troppo poco per salvare qualcuno. Da quel momento, da quando scopri che la corsa delle lancette segna il tempo tra la vita e la morte, c’è una domanda che non ti abbandonerà più: lì fuori non c’è nessuno che chiede aiuto, oppure non lo abbiamo visto?
Eppure non è di questo che si discute nei consessi internazionali. Le vite a perdere non valgono un barile del petrolio che le potenze regionali e le assetate economie avanzate si contendono.
Com’è possibile movimentare ogni giorno migliaia di persone, percorrere impossibili rotte desertiche, attraversare confini polverosi, raccogliere e trasferire denaro, fornire carburante alle centinaia di mezzi di trasporto, ottenere i lasciapassare, governare i centri di raccolta e poi gestire la flotta per il viaggio via mare – per molti l’ultima tappa in ogni senso – e tutto questo senza dare nell’occhio?
Alle volte li restituisce il mare. Altre vengono scoperti per caso in una buca. Altre ancora giacciono, semisepolti dalla sabbia, spolpati dalle iene. Un migrante ha un solo modo per vivere, e molti per morire. Se sopravvivi al Sahara, se scampi ai lager in Libia, se alle spalle ti sei lasciato il Mediterraneo, solo allora è fatta.
«Mi chiamo Badewbo, e non mi voglio lamentare. Ci sono dei miei amici che qui, in salvo, non ci sono mai arrivati. Quindi, alla fine, si può dire che sono stato fortunato». Testimonianze così non hanno niente di inedito per chi ogni giorno ascolta le voci dei superstiti. «Certo che giocare sarebbe stato più facile. Ma noi – ha raccontato Badewbo agli operatori di Save the Children una volta sbarcato in Sicilia – eravamo poveri e quando si è presentata l’occasione di farmi andare in Libia, i miei genitori hanno stretto gli occhi per non far uscire le lacrime». E gli hanno detto, «va bene».
Le colonne di migranti che risalgono il deserto non sanno nulla delle mutevoli tempeste di sabbia nei fortini della politica. I fuoristrada dell’Oim, l‘Organizzazione mondiale delle migrazioni Onu, in Niger hanno fatto in tempo, poche settimane fa, a dare da bere a una dozzina di subsahariani che da otto giorni non mangiavano e nelle taniche non avevano più neanche un goccio d’acqua. I passeur li avevano abbandonati nella terra di nessuno al limitare tra Libia, Tunisia e Niger.
«Una filiera del genere non può passare inosservata. E non può prosperare senza il consenso e spesso la complicità di chi oggi afferma di voler porre fine al traffico di migranti». L’investigatore Onu che parla sotto anonimato si fa precedere da un rapporto di 299 pagine inviato al Consiglio di sicurezza nelle scorse settimane. Un dossier che le cancellerie conoscono, a cominciare dall’Italia che quest’anno è membro non permanente proprio del consiglio di sicurezza.
Nel faldone ci sono nomi che scottano. Come quello di Fathi al-Far, comandante della brigata al-Nasr. L’ex colonnello dell’esercito di Gheddafi, «ha aperto un centro di detenzione a Zawiyah», sulla costa occidentale a metà strada tra Tripoli e Zuara. Il gruppo di investigatori «ha ricevuto informazioni secondo cui il centro di detenzione è usato per “vendere” i migranti ai contrabbandieri».
Nella primavera del 2020 da Messina arriva un’altra conferma. E non ha precedenti giudiziari dello stesso tenore. Due nordafricani e un subsahariano accusati di essere dei feroci torturatori nel campo di prigionia ufficiale di Zawyah sono stati condannati a 20 anni di carcere ciascuno. La lettura delle motivazioni della sentenza di primo grado suonano come un atto d’accusa alle autorità di Tripoli e ai paesi che le sostengono.
«L’agire dei carcerieri – hanno provato a spiegare i loro avvocati – non sarebbe riconducibile a logiche criminali, bensì rientrerebbe nella “politica” di gestione dei migranti praticata dal governo libico attraverso l’istituzione di “centri di detenzione” per i clandestini». E il «pagamento di somme di denaro non rappresenterebbe un riscatto, ma una sorta di “cauzione”». Tesi che il giudice ha respinto.
Il campo di prigionia di Zawyah è uno dei centri sotto il controllo diretto del governo, che lo ha affidato alla milizia al-Nasr, una banda armata comandata dai fratelli Kachlaf che avevano posto a capo della guardia costiera e del porto petrolifero il comandante Bija, arrestato a inizio ottobre 2020 e prosciolto sei mesi dopo, perciò promosso al gradi di maggiore della marina. Il “direttore” del centro è Ossama, cugino di Bija, mentre i Kachlaf controllano personalmente a Zawyah, sempre su concessione del governo, la più grande raffineria in attività di tutta la Libia.
Intanto le Nazioni Unite, la Commissione europea, il Dipartimento di Stato Usa e il governo britannico hanno confermato le sanzioni nei confronti del discusso guardacoste, indicato dai migranti ascoltati numerose volte dalla squadra mobile di Agrigento come “il capo dei capi” nei campi di prigionia annessi a strutture petrolifere e a pochi passi dal porto petrolifero di Zawyah, di cui Bija resta il supervisore.
Per i giudici non ci sono dubbi. Il sistema politico-criminale di Zawyah è una macchina fatta di ingranaggi mafiosi legata direttamente al potere ufficiale di Tripoli e ai suoi finanziatori internazionali. I migranti sono l’asset politico più importante.
Un’arma negoziale con cui ricattare l’Europa e tenere a bada le milizie avversarie, secondo modalità «volte alla individuazione e alla cattura, per il tramite di soggetti complici, spesso appartenenti alle milizie locali corrotte, di individui – si legge nella sentenza – provenienti da diverse regioni del continente africano che, versando in situazioni di assoluta miseria, confluiscono in Libia nella speranza di raggiungere via mare il continente europeo».
L’equazione in Libia non cambia. Per ogni migrante messo in mare per raggiungere l’Europa, un altro viene intercettato. Ѐ così che si giustifica il mantenimento della cosiddetta guardia costiera libica da parte di Italia e Ue, ed è così che i trafficanti riescono a proseguire nei loro affari continuando a fare pressione sull’Europa affinché continui a foraggiare le milizie attraverso il sostegno alle polizie marittime.
Indagare, però, non è conveniente. E resta fino ad ora inascoltato l’appello del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio. «Fare comprendere agli Stati del Mediterraneo, e agli Stati europei che operano nel Mediterraneo – insiste Patronaggio – l’estrema gravità del fenomeno e indurli ad una fattiva cooperazione giudiziaria internazionale è di fondamentale importanza per contenere l’immigrazione irregolare ed arginare le inaudite violenze e le tragiche violazioni dei più elementari diritti umani, cui sono vittime gli stessi immigrati e fra essi quelli più deboli come donne e bambini».