Mozambico: 29 anni di una pace ambigua - Nigrizia
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Il 4 ottobre 1992 la firma a Roma degli accordi che misero fine a 16 anni di guerra civile
Mozambico: 29 anni di una pace ambigua
Quello che celebra oggi la fine del conflitto tra Renamo e Frelimo è un paese ancora profondamente lacerato da diseguaglianze e tensioni sociali. Un paese che ha di fronte a sé sfide enormi che la sua classe dirigente sembra incapace di affrontare
04 Ottobre 2021
Articolo di Luca Bussotti
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Quando, il 4 ottobre 1992, con tre giorni di ritardo su quanto previsto, il governo mozambicano, guidato allora da Joaquim Chissano, e il maggiore movimento (oggi partito) di opposizione, la Renamo (Resistenza Nazionale del Mozambico), presieduto da Afonso Dhlakama, scomparso il 3 maggio del 2018, firmarono a Roma uno storico accordo di pace, tutto sembrava lasciar prevedere un futuro roseo per il Mozambico.

Per anni classificato come paese più povero al mondo, la comunità internazionale finanziò abbondantemente quella pace, mediata dalla comunità di S. Egidio in collaborazione con lo Stato italiano, per provare a fare uscire il paese da una guerra civile fra le più terribili che si siano mai viste in Africa. Nei sedici anni di conflitto, le incursioni delle due parti si concentrarono contro le inermi popolazioni civili, soprattutto nel centro e nel nord del territorio, dove la presenza della Renamo era più massiccia.

Insomma, fu più una guerra contro i civili che civile, nel senso classico del termine. Distruttiva sia quanto al bilancio in termini di vite umane (circa un milione di morti) che alle infrastrutture del paese, in pratica completamente distrutte.

Fu un conflitto inserito nel contesto della guerra fredda, con la Renamo finanziata prima dal regime separatista rhodesiano di Ian Smith e poi dell’apartheid sudafricano, e il governo supportato dalle truppe dello Zimbabwe – dopo che Mugabe aveva assunto il potere nel 1981 – e dal sostegno politico, più che militare, di paesi quali Unione Sovietica, Cuba e Cina.

Ma fu un conflitto – ed è questo che non fu compreso né dal partito di governo, il Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico), né dai mediatori occidentali – che leggeva nella Renamo una forza puramente distruttiva, senza una reale adesione popolare fra le masse del paese.

Fu questo l’errore che, probabilmente, ha originato tutto ciò che, oggi, è diventato il Mozambico: dal sogno di un paese modello – a lungo decantato in primo luogo dall’Italia e dai suoi mentori politici e accademici come esempio di pacificazione e di convivenza fra etnie e religioni diverse in Africa – all’incubo di un territorio attraversato da terribili diseguaglianze e tensioni.

A partire dalla ormai nota guerra pseudo-islamista a Cabo Delgado, senza dimenticare quella riscoppiata ufficialmente nel 2013 fra governo e Renamo, e ancora oggi non conclusa, nonostante i continui accordi di pace e tregue firmate fra le due parti.

Se non si compresero, a suo tempo, l’entità e le ragioni dell’adesione di larghi strati popolari alla proposta della Renamo, pur con tutto il suo portato di violenza e devastazione, ancor meno si capì dove un processo di “pace negativa” in un paese in cui due etnie alleate (i Makonde di Cabo Delgado e i Ronga del Sud), entrambe minoritarie, la facevano da padrone quanto a benefici economici, politici e formativi, avrebbe inevitabilmente portato.

La pace negativa, ossia l’assenza di guerra non significa armonia e coesione sociale, non significa pace. A questa situazione il Mozambico si fermò dopo gli accordi generali di pace di Roma del 1992 e in questa situazione il paese è rimasto fino a oggi.

Diseguaglianze enormi fra nord e sud, fra campagna e città, in parte fra uomini e donne, con una corruzione sistematica che ha privilegiato soltanto alcuni (di solito appartenenti alle due etnie sopra citate, e comunque legati necessariamente al partito di governo), non lasciando neanche le briciole agli altri.

Il recente Rapporto sugli aggregati familiari, appena pubblicato dall’istituto nazionale di statistica, mette in evidenza il drammatico aspetto di un paese che non soltanto non è riuscito a centrare l’obiettivo di una pace positiva, ma neanche quello di una unificazione accettabile fra le sue varie parti.

Quando il tasso di analfabetismo continua, oggi, al 40%, con una provincia del nord, Niassa, con più del 53% di analfabeti e Maputo città, all’estremo opposto della configurazione geografica, appena sopra al 6%, ciò dimostra quante poche promesse siano state mantenute rispetto a quegli storici accordi di pace.

Il Mozambico ha di fronte a sé, oggi, sfide enormi, che la sua classe dirigente sembra incapace di affrontare: quella del terrorismo a Cabo Delgado, in cui l’approccio militare – per di più col decisivo aiuto prima di società di mercenari, come la russa Wagner e la sudafricana Dag, poi di Paul Kagame e del Rwanda – prevale nettamente rispetto a politiche di inclusione sociale ed economica.

La sfida della chiusura definitiva del processo di pace con la giunta militare della Renamo, guidata dallo scissionista Nhongo; quella di disequilibri territoriali e ingiustizie socio-economiche che prefigurano un paese spaccato in due, dal punto di vista territoriale.

Quella di una corruzione sistematica che si sta plasticamente autorappresentando, in questi giorni, nel processo sul debito pubblico occulto di Maputo che ha coinvolto una intera classe dirigente; infine, quella relativa al suo modello di sviluppo, oggi incentrato in mega-progetti di risorse naturali, dal gas alle monocolture di commodities così come forestali per uso industriale, lasciando indietro i piccoli e medi produttori agricoli, così come i milioni di giovani che vivono in periferie urbane sempre più fatiscenti e che contrastano con l’opulenza della città di cemento della capitale.

Dinanzi a questo scenario non certo roseo, ci sono segnali di speranza: movimenti sociali importanti, laici e di ispirazione religiosa, soprattutto in ambito rurale, ma in parte anche urbano, stanno provando a emergere, con tutte le difficoltà di uno Stato sempre più autoritario e spaventato di poter passare la mano, dopo più di 45 anni ininterrotti di potere.

Un percorso a ostacoli, insomma, che le celebrazioni ufficiali vorranno non soltanto ignorare, ma nascondere rigorosamente, trincerandosi dietro a formalismi e protocolli di cerimoniali a cui tutti gli attori internazionali parteciperanno di buon grado, festeggiando i 29 anni di una pace che non esiste più o, forse, non è mai esistita, e che va ricostruita a partire dal basso.

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