Aridità, improduttività, desertificazione, deforestazione. In queste parole è racchiuso lo stato di salute (anzi di malattia) del territorio africano. Quel territorio che vuol dire alimentazione, lavoro, sopravvivenza per milioni e milioni di persone. Almeno il 60% degli africani dipendono dalla terra e dalle foreste. Ma oggi, circa il 65% delle terre produttive nel continente africano è in stato di degrado, mentre il 45% del territorio è colpito da desertificazione.
Si calcola, inoltre, che oltre 4 milioni di ettari di foreste scompaiano ogni anno. E pensare che il continente africano ospita il 17% di foreste a livello globale e il 31% di “altre terre boschive”. Dalle mangrovie alle foreste montane a quelle tropicali. Ospita inoltre la seconda foresta pluviale del pianeta: il bacino del Congo.
Spiegato in termini concreti, deforestazione vuol dire ridurre le barriere naturali a difesa degli effetti estremi provocati dalla crisi climatica, alluvioni, frane e smottamenti. E incrementare la crescita del Co2 nell’atmosfera. In un modo o nell’altro distruggere l’habitat provoca sempre effetti collaterali: si stima che addirittura il 90% della popolazione del continente utilizzi ancora la legna da ardere e il carbone per produrre calore, luce e soprattutto per cucinare, cosa che è tra l’altro la maggiore causa di malattie respiratorie nel continente.
Ma le foreste sono anche una fonte primaria di medicinali usati da gran parte della popolazione (si parla dell’80%). Sono 5.400 le piante medicinali documentate in Africa. Un patrimonio da salvaguardare. Anzi, da salvare. È un recente report della Fao e dell’Agenzia per lo sviluppo dell’Unione africana (Nepad) a evidenziare la necessità di azioni rapide per intervenire sulla devastazione del paesaggio africano e ristabilire quell’equilibrio ecologico che sembra ormai perso da tempo e i cui effetti e danni non solo sono visibili nell’ambiente naturale ma si manifestano nella vita quotidiana degli individui che in quell’ambiente devastato vivono e interagiscono.
Non basta più – seppure molto importanti – la buona volontà di singoli e associazioni ambientaliste impegnate nella piantumazione di alberi. Occorrono – per dirla con le parole contenute nel report – interventi massicci e onnicomprensivi per riportare le foreste in quei paesaggi ormai spogli e inutili. Anche se poi è il report stesso a ricordare l’importanza delle associazioni e dei singoli e ripercorre il ruolo svolto in Kenya dall’ambientalista Wangari Maathai e dal suo Green Belt Movement nella tutela dell’ambiente, nell’attuare azioni concrete – ancora prima che ci pensassero governi e agenzie internazionali – e nel diffondere una coscienza ecologista nel continente africano.
L’Africa conta un miliardo di ettari di terre aride, e di questi 393 milioni di ettari necessitano di assoluto ripristino. Sono le aree della cosiddetta Grande Muraglia Verde (The Great Green Wall) che comprende la zona del Sahel e del Sahara e su cui si sono concentrati gli sforzi – e le ambizioni – dei governi africani, sostenuti dalle agenzie dell’Onu. L’obiettivo è quello di rafforzare gli ecosistemi e sfidare i cambiamenti climatici. Per quanto riguarda le terre coltivate degradate si parla di 132 milioni di ettari a cui potrebbero presto aggiungersi quegli spazi di terra già vulnerabili al cambiamento climatico.
Urgente invertire la rotta
Invertire la perdita di foreste e il degrado del suolo richiede prima di tutto agire sulle cause principali del degrado, che da un lato è di tipo antropico, ma dall’altro riguarda fattori naturali, come il clima, appunto. Ma richiede anche grandi investimenti. I governi africani stanno facendo la loro parte, lavorando al ripristino di oltre 100 milioni di ettari attraverso il programma AFR100 (African Forest Landscape Restoration Initiative), 200 milioni di ettari attraverso l’Agenda panafricana per il ripristino dell’ecosistema e ulteriori 100 milioni di ettari attraverso il progetto della Grande Muraglia Verde. Iniziative che però non sembrano rispettare tabelle di marcia e aspettative.
Per quanto riguarda la Grande Muraglia, ad esempio, che dovrebbe interessare uno striscia di terra lunga 8mila km una volta completata, al momento si contano solo 18 milioni di ettari di terra ripristinata. E si tratta di un progetto avviato nel 2007. Un impegno che comunque non ha mancato di dare risultati in termini di numero dei beneficiari, di disponibilità ristabilita e fertilità del suolo, di attività generatrici di reddito per molte famiglie. Il termine fissato per i 100 milioni di ettari da ripristinare sarebbe il 2030.
Ricordiamo che nel 2019 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 2021-2030 decennio della riqualificazione ecologica e forse ci si aspetta ulteriori fondi speciali per incrementare azioni che vanno a rilento. Buone notizie, invece, per quanto riguarda l’AFR100. In base a questo accordo, i governi africani si erano impegnati a ripristinare 100 milioni di ettari entro il 2030. Oggi, questa iniziativa, che raggruppa 31 governi, ha superato l’obiettivo iniziale attestandosi a giugno 2021 a 129.912.800 ettari.
Di gran lunga il successo più significativo della Bonn Challenge sotto la cui egida si svolgono i progetti. Il continente africano costituisce, in questo caso, oltre il 60% della quota totale impegnata nell’ambito dell’iniziativa. Ma le difficoltà complessive naturalmente non mancano. Oltre alla continua necessità di finanziamenti a lungo termine per riforestare e per ripristinare aree agricole, bisogna anche fare i conti con il possesso fondiario e i diritti di proprietà. Sfide importanti in un continente dove la terra e il suo possesso significano non solo sopravvivenza ma coinvolge relazioni familiari ancestrali.
Intanto, mentre si agisce in positivo in un senso, con progetti specifici, la situazione peggiora in un altro. Sebbene milioni di ettari di terra siano in fase di ripristino questo non è sufficiente per affrontare la portata del problema. Nel decennio 2010-2020, solo 11 su 58 (19%) paesi e territori africani hanno mostrato un generale aumento della copertura forestale.
Naturalmente lavorare alla riforestazione e al ripristino di aree coltivabili non solo aiuta a prevenire o mitigare i rischi del cambiamento climatico, ma crea condizioni virtuose per l’incremento di posti di lavoro, per la sicurezza e la stabilità delle comunità e delle nazioni stesse.
Inoltre aiuta a favorire, studiare e applicare sistemi alimentari resilienti e sostenibili che nel lungo termine potrebbero diminuire le migrazioni climatiche, ma anche l’abbandono dei villaggi – e di terre infertili – per agglomerati urbani non sempre in grado di accogliere un numero troppo alto di famiglie e di popolazioni che fuggono da fame e miseria.