Dopo il doppio colpo di stato in Mali e soprattutto all’indomani del golpe del 5 settembre scorso in Guinea, quando una unità di élite dell’esercito – il Groupement des forces spéciales (Gfs) ‒ ha dato l’assalto al palazzo presidenziale catturandone l’inquilino Alpha Condé, 83 anni ‒ al suo terzo mandato (18 ottobre 2020), contro il dettato della Costituzione (da Condé rivista per consentirglielo) ‒ e issando al potere al suo posto il colonnello Mamady Doumbouya, sono molti gli osservatori di cose africane a chiedersi se per caso il prossimo colpo militare – che sembra tornare… “di moda” in Africa occidentale ‒ non potrebbe riguardare il Benin, con la cacciata del suo presidente Patrice Talon. Che però è solo al suo secondo mandato, rieletto al primo turno, l’11 aprile scorso, con l’86% dei voti, senza però trovarsi confrontato a un vero avversario.
Resta comunque il fatto che Talon – “il re del cotone”, considerato da Forbes come l’uomo più ricco del Benin che una volta eletto, nell’aprile 2016, con la mano sul cuore si era lasciato scappare la promessa di non voler fare che un solo mandato ‒ si sta dando da fare per indebolire sempre più la democrazia beniniana, una volta portata a modello da quando nel febbraio 1990 era stato ristabilito il multipartitismo, estromesso il presidente Mathieu Kérékou, che incarnava il potere militare, e iniziato un processo di elezioni libere, democratiche e trasparenti.
Le elezioni dello scorso aprile, vinte in solitario da Talon, hanno segnato una svolta in un paese conosciuto come “laboratorio di democrazia” in Africa per la sua vitalità democratica e alternanze pacifiche. Solo due candidati avevano potuto presentarsi contro Talon, mentre venti candidature che si erano proposte, erano state rigettate dalla Corte costituzionale, così come il loro ricorso.
Talon dunque, uomo d’affari che ha fatto fortuna con il cotone, maggiore entrata del paese, e altri input agricoli, da tempo ormai si è dato molto da fare per neutralizzare i suoi contendenti. Per arrivarvi si è servito da una parte dell’adozione di nuovi testi legislativi (modifica della Costituzione, nuovo codice elettorale, carta dei partiti politici…), che gli permettono oggi di controllare la totalità degli 83 seggi del parlamento e 71 dei 77 comuni del paese.
Così, per esempio, un candidato deve ottenere almeno 16 parrainage (sponsorizzazione) di eletti per potersi candidare. Che potrebbero anche sembrare pochi, ma in realtà rappresentano un numero importante in un paese in cui le istituzioni costituiscono una clientela sottomessa ormai alle sole direttive della presidenza.
Dall’altra parte Talon ha innescato una caccia all’oppositore che ha portato all’esilio di diverse personalità e all’imprigionamento di coloro che avevano deciso di sfidare la situazione. Così, ad esempio, Sébastien Ajavon, alleato del presidente nel 2016, ha dovuto fuggire in Francia, dopo la condanna, nel 2018, a 20 di prigione in un affare di traffico di droga che lui rigetta punto su punto.
Altro caso ancora più emblematico: l’ex ministra della giustizia Reckya Madougou, dirigente del partito Les Démocrate (una derivazione del partito dell’ex presidente Thomas Boni Yayi), si trova in carcere dal 5 marzo scorso, nella prigione di massima sicurezza a Porto Novo, la capitale, accusata addirittura di finanziare il terrorismo. Era stata arrestata al termine di un comizio a Porto Novo. Lei sì avrebbe potuto essere la prima donna beniniana candidata alla presidenza, perché aveva tutte le carte in regola.
E, infine, Galiou Soglo, figlio dell’ex presidente Nicéphore Soglo, sfuggito a un attentato il febbraio scorso, dopo aver deposto la sua candidatura alle presidenziali.
Come allora non parlare di deriva autocratica del regime? Nicéphore Soglo si era pronunciato a marzo contro questa deriva: «È inammissibile – aveva detto – che l’impegno politico del Benin si traduca ormai con l’esilio, l’assassinio, l’avvelenamento o la prigione».
Così il Benin è crollato nei rapporti di Amnesty International, Freedom House e Reporter senza Frontiere, cosa inedita nella storia recente del paese…
E allora? Un segno di distensione è venuto dallo stesso Talon che il 22 settembre ha incontrato nel palazzo presidenziale a Cotonou il suo predecessore e oppositore Thomas Boni Yayi. Nell’incontro, durato un’ora, i due uomini, un tempo alleati, hanno certamente parlato della liberazione dei prigionieri politici, soggetto molto sensibile.
Ma l’opposizione non riesce a farsi sentire contro Talon. Sembra divenuta afona e stordita, incapace di denunciare il passo indietro nelle libertà democratiche. E questo perché manca di immaginazione, di dinamismo e di strategia. Così come fa le spese delle proprie divisioni, dei suoi bizantinismi (che tanto infastidivano Talon) e della subdola guerra che oppone i suoi dirigenti.
Intanto Talon ha acquisito alla sua causa i sette membri della Corte costituzionale, l’organo regolatore dei media, la commissione elettorale, radio e tv nazionali. Ha nominato uomini di fiducia alla testa dei grandi corpi dello Stato e si è acquisito i social… Senza contare che cosa il denaro (e l’uomo è ricco) è capace di fare per creare consenso, anche tra le forze armate. Infine, il vicino, la Nigeria, gigante d’Africa, mal sopporterebbe un piccolo paese instabile alle sue frontiere.