108 giorni di detenzione. Quasi quattro mesi, in quattro carceri diversi. Una storia, questa scritta come fosse un diario, che inizia alle 21 del 1° settembre del 2020 davanti al golfo di Sirte e che vede protagonisti 18 pescatori di Mazzara del Vallo. Sequestrati dalla guardia costiera libica, mentre si trovano a bordo dei loro motopescherecci, a 34 miglia dalle coste di Bengasi. In acque che loro ritengono internazionali, mentre i libici leggono come proprie.
Fosse solo perché lì si pesca il pregiato gambero rosso. Un’apparentemente normale nottata di bonaccia, che si trasforma in uno dei peggiori incubi per chi solca questo mare di mezzo, dove si continua a morire, respingere, predare. Dove i militari sembrano (sono) pirati, senza lustrini ma canottiere. Dove motovedette arrugginite, sporche e dai vetri rotti, assaltano nella notte, a suon di spari in aria, come si fosse a un rodeo, 4 pescherecci, non riuscendo però a completare il bottino: 5 dei 9 natanti riescono a scappare.
Alimentando così l’acredine dei predatori, che intendono offrire il loro pescato umano al generale Khalifa Haftar, la cui foto viene subito mostrata al comandante del Medinea, Piero Marrone. Il libro del giornalista e della blogger si apre con il referto che il dipartimento di Salute mentale di Mazzara del Vallo stila per rendicontare a quali torture è stato sottoposto Giovanni Bonomo, diabetico, a un passo dal collasso glicemico quando viene liberato. I farmaci, che l’ambasciata italiana ha sempre consegnato ai libici, non gli sono mai arrivati.
Le pagine sono un rosario continuo di torture fisiche e psicologiche. In quei lunghissimi quattro mesi di detenzione, i pescatori non hanno avuto nessun contatto con i familiari; hanno tenuto sempre gli stessi vestiti estivi, quelli che ogni sera venivano bagnati a suon di pompa, da chi così intendeva lavare i detenuti che li indossavano, senza fornire nulla per asciugarsi.
Minacce, torture, pestaggi, la paura di essere uccisi, dimenticati dall’Italia; finte esecuzioni ogni volta che vengono cambiati di cella; terrore continuo, acuito da giornate sempre uguali. Fame, da non riuscire a dormire la notte, in mezzo alle cimici, per terra. Accuse di aver trafficato droga. Un diario che aiuta a comprendere, mettendo in luce il vissuto dei pescatori; che tiene viva la memoria di un sequestro che l’Italia ha voluto presto dimenticare: troppi gli interessi che legano il nostro paese alla Libia per tenere alta l’attenzione.
La cala narra anche la tempra femminile di chi combatte dalla terra ferma. Tra le mogli, sorelle e figlie che aspettano e protestano, c’è Rosetta Ingargiola, madre di Marrone. Il mare le ha preso marito e primogenito, non permetterà ai libici di portarle via il più piccolo, Piero, “me figghiu”. Diventerà la matrice delle proteste.