Il 19 dicembre segnava il terzo anniversario dell’inizio della mobilitazione popolare che ha provocato la caduta del trentennale regime islamista del Partito del congresso nazionale (National Congress Party – Ncp), la deposizione del suo presidente Omar El-Bashir e portato il Sudan sulla strada, più accidentata del previsto, della transizione verso la democrazia.
L’anniversario è stato onorato con dimostrazioni di massa in diverse città del Sudan, compresa Atbara dove, il 19 dicembre del 2018, la gente era scesa in piazza per dimostrare contro l’aumento del prezzo del pane. Quella manifestazione sarà ricordata nella storia del paese come il primo passo di quella che i sudanesi chiamano “la rivoluzione di dicembre”.
A Khartoum, la capitale, la dimostrazione è stata oceanica. Era l’ennesima degli ultimi due mesi, organizzata, come le precedenti, dai comitati di resistenza popolare che guidano la protesta contro il colpo di Stato del 25 ottobre scorso, orchestrato dall’ala militare delle istituzioni del periodo transitorio, e contro l’accordo del 21 novembre tra i militari e il primo ministro del governo civile Abdalla Hamdok, sconfessato anche dalla maggioranza delle forze politiche che lo sostenevano.
Come deterrente alla manifestazione erano stati schierati l’esercito e le forze di sicurezza. Nei giorni scorsi erano circolate immagini di una città pattugliata e presidiata da mezzi militari carichi di uomini armati. Ieri mattina i ponti che mettono in comunicazione Khartoum con le città gemelle di Omdurman e Khartoum Nord erano bloccati. Ma la folla che dimostrava pacificamente era così compatta e numerosa che ha superato gli sbarramenti.
Secondo testimoni oculari, i militari a guardia dell’imbocco dei ponti si sono quasi fatti da parte, impressionati forse dal numero dei dimostranti e dallo slogan da loro gridato: “The army is the army of Sudan, the army is not the army of Burhan”. (L’esercito è l’esercito del Sudan, l’esercito non è l’esercito di Burhan). I due cortei hanno così potuto unirsi al terzo, proveniente dai quartieri della capitale.
L’obiettivo era il palazzo presidenziale, che la folla ha raggiunto in un tripudio di bandiere, di striscioni e di slogan contro la dittatura militare e a favore del passaggio del potere ai civili. I dimostranti non si sono fatti intimorire neppure dal lancio di gas lacrimogeno e spari ad altezza d’uomo. I comitati di resistenza hanno anche lanciato l’organizzazione di un sit-in a tempo indeterminato fuori dal palazzo, simbolo del potere golpista come quello che nel 2019 aveva presidiato la piazza davanti al comando militare per diverse settimane.
Ma la notizia ha scatenato una forte repressione da parte delle forze di sicurezza. Secondo i comitati di resistenza, i feriti della giornata sarebbero almeno un centinaio. E un morto, un ventottenne colpito da un proiettile, che porta ad almeno 45 il numero delle vittime di questi due mesi di resistenza al colpo di stato militare. L’uccisione è stata confermata oggi dal comitato dei medici, che negli ultimi mesi è stato la fonte più credibile riguardo alle vittime della repressione.
Ad ogni modo sembra che il sit-in sia stato cancellato per timore di fatti sanguinosi come quelli del 3 giugno 2019, quando uomini armati si scagliarono contro i manifestanti disarmati davanti al comando militare al prezzo di centinaia di morti e dispersi. Gli assalitori sono stati riconosciuti dai testimoni come componenti delle Forze di supporto rapido, (Rapid Support Forces – Rsf) il cui comandante Mohamed Hamdan Dagalo è ora vicepresidente della giunta militare.
Situazione critica
L’anniversario dell’inizio della “rivoluzione di dicembre” cade in un momento particolarmente difficile per il Sudan. Il braccio di ferro tra i militari golpisti e l’opposizione – quella popolare dei comitati di resistenza e quella politica delle forze aderenti alle Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc), l’ala civile delle istituzioni del processo di transizione – sembra crescere di durezza ogni giorno.
A riprova, le minacciose dichiarazioni del portavoce dell’esercito sugli slogan usati durante le manifestazioni del 19: «The divisive and hostile tone can impede a smooth democratic transition» (I toni divisivi e ostili possono impedire una transizione democratica morbida).
Sembra che l’accordo dei militari con il primo ministro del governo civile, Hamdok, sia servito solo, almeno per il momento, ad esacerbare gli animi. L’opposizione l’ha sconfessato immediatamente. I ministri rappresentanti delle forze politiche nel suo esecutivo di transizione si sono dimessi in massa e le Ffc hanno dichiarato ripetutamente che il primo ministro aveva tradito il mandato che loro gli avevano affidato.
I militari, che con ogni probabilità pensavano di poter usare l’accordo come leva per calmare gli animi all’interno e per uscire dall’isolamento internazionale, si sono trovati spiazzati, senza altri strumenti di mediazione, e cominciano a minacciare la repressione.
Hamdok, che aveva accettato l’ingrata posizione di unico firmatario di un accordo con i golpisti in cambio di assicurazioni sulla sua libertà di proposta politica, si trova invece impastoiato dall’esigenza di sintetizzare istanze ed interessi sempre più polarizzati e contrapposti. Ad un mese dalla firma non è riuscito a nominare neppure un singolo componente dell’esecutivo tecnico che, secondo gli accordi, avrebbe dovuto traghettare il paese alle elezioni.
Intanto, all’interno del paese l’opposizione sembra crescere e rafforzarsi. Nell’empasse politico nazionale, cresce l’instabilità che torna a devastare intere regioni. Gravissimi episodi sono stati denunciati nelle scorse settimane in Darfur, dove si sono contate molte decine di vittime. Nel Sud Kordofan lo stillicidio degli scontri tra diversi gruppi e clan è quotidiano.
Nel Sudan orientale la protesta dei nazir beja, in particolare del gruppo hadendowa, si è rafforzata fino a portare alla sospensione dell’accordo di pace firmato a Juba nell’ottobre dell’anno scorso. La pacificazione e la sicurezza del paese, il primo tra gli obiettivi del processo di transizione, è certamente ben lontano dall’essere raggiunto.
Questo mentre all’esterno l’isolamento si fa sempre più palpabile. Nei giorni scorsi si sono susseguite poco diplomatiche dichiarazioni di diversi attori della comunità internazionale. L’amministrazione Usa ha fatto sapere che smobiliterà 700 milioni di dollari di aiuti solo quando i militari passeranno le consegne ai civili. La posizione è confermata da recentissime dichiarazioni del segretario di Stato, Antony Blinken, che ha insistito sulla necessità che i civili tornino a guidare la transizione del paese verso la democrazia.
Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno diffuso un documento congiunto in cui sollecitano una dichiarazione politica che coinvolga tutte le forze firmatarie dell’accordo del 2019, che è stato spazzato via dal golpe. Sulla stessa linea si trovano le prese di posizione dell’Unione europea. Dunque per ora ben pochi passi avanti neppure nel traghettare il paese fuori dall’isolamento internazionale, altro punto fondante del processo di transizione.
Se poi si considerano le relazioni regionali, la giunta militare è arrivata molto vicina ad un conflitto aperto con l’Etiopia per il territorio conteso del triangolo di al-Fashaga mentre da mesi sono in stallo i negoziati sul riempimento del bacino della grande diga etiopica sul Nilo azzurro. Ci sono però sempre più stretti accordi militari con l’Egitto, che non sembrano andare nella direzione di una maggiore stabilità per l’intera area, tenuto conto delle fortissime tensioni del Cairo con Addis Abeba per la gestione delle acque del Nilo.
A tre anni dall’inizio della mobilitazione che ha portato alla fine del passato regime e all’inizio del processo di transizione verso una nuova governance democraticamente eletta, il Sudan si trova dunque in una situazione critica. Per uscirne, avrebbe bisogno di un accordo politico stabile e forte tra le forze responsabili della transizione, supportato dal consenso popolare. Ma per ora sembra esserne ben lontano.