Il Darfur, regione situata nell’ovest del Sudan e grande quanto la Francia, è stata teatro di un lungo conflitto a bassa intensità scoppiato nel febbraio 2003 tra i janjaweed, miliziani arabi di origine nomade appartenenti alle tribù dei baggara, minoritari nell’area ma maggioritari nel resto del paese, e la popolazione nera non baggara della regione, rappresentata dai gruppi ribelli del Movimento/Esercito di liberazione del Sudan (Slm/a) e del Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Jem).
Il conflitto, costato la vita a oltre 300mila persone, è stato segnato da inaudite violenze, che vanno dalla pulizia etnica agli stupri di massa o all’arruolamento di bambini soldato e altri crimini contro l’umanità, che in seguito hanno portato all’incriminazione dell’ex presidente sudanese Omar El-Bashir, per crimini di guerra e genocidio, da parte della Corte penale internazionale.
Da almeno un anno nella periferica regione sudanese si stanno creando tutti i presupposti per un riaccendersi delle ostilità, che nel 2021 hanno già provocato la fuga dal territorio di oltre 400mila persone, un numero quattro volte superiore rispetto al 2020.
Nel frattempo, con la riduzione delle reti di protezione sociale, sono notevolmente aumentati anche gli episodi di violenza sessuale che lo scorso anno hanno raggiunto i 200 casi, registrando una tendenza preoccupante.
Ad aggravare la situazione, c’è la notizia che il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam/Wfp) ha sospeso le operazioni in tutto il Nord Darfur, a seguito del saccheggio di tre dei suoi magazzini, avvenuto lo scorso 24-25 dicembre nella capitale dello stato del Nord Darfur, El-Fasher.
Il direttore esecutivo del Pam, David Beasley, ha espresso «indignazione per gli attacchi insensati» e affermato che nel 2022, la sospensione dell’intervento umanitario potrebbe interessare quasi due milioni di persone.
Sono numerose le cause all’origine dell’aumento dell’insicurezza nella regione sudanese. Certamente è stata alimentata dal vuoto creato dal ritiro dell’Unamid, la missione congiunta di pace di Onu e Unione africana, che per 13 anni ha operato in Darfur. Sebbene l’Unamid non abbia sempre protetto a dovere i civili, l’ultima ondata di violenze non sarebbe stata così lunga e letale se i suoi effettivi fossero ancora presenti.
La smobilitazione della forza di peacekeeping ha aggravato la situazione favorendo il riacutizzarsi delle tensioni da parte delle milizie ancora attive in alcune zone. In particolare nel Jebel Marra, un’area montuosa dove ha ancora la roccaforte una fazione dell’opposizione armata, il Movimento di liberazione del Sudan di Abdel Wahid al-Nur (Slm-AW).
Sulla recrudescenza delle violenze hanno inciso inoltre le tensioni causate dai gruppi armati firmatari dell’accordo di pace con le autorità sudanesi, siglato il 31 agosto 2020 a Juba, che temono di perdere le poltrone acquisite nel governo dei militari a Khartoum.
L’accordo di Juba prevedeva pure che le milizie ribelli entrassero a far parte di una forza congiunta per il mantenimento della sicurezza. Questo però non è stato possibile perché la maggior parte degli accordi di sicurezza deve ancora prendere vita.
A parte il Comitato per il cessate il fuoco permanente, guidato dalle Nazioni Unite, che continua a funzionare nonostante lo stallo politico di Khartoum. Il Comitato, però, per come era stato originariamente concepito, non ha né i mezzi per proteggere i civili, né gli strumenti per portare a una pace duratura nel Darfur.
Mentre sullo sfondo resta la difficile transizione politica del paese, che ha polarizzato le comunità, alimentato le rimostranze delle élite locali e prodotto un certo grado di ribellione e defezione all’interno di alcuni gruppi, il Jem in particolare, firmatari dell’accordo di Juba.
Senza tralasciare che parte della violenza che vediamo oggi in Darfur è dovuta alla migrazione stagionale, aggravata dal cambiamento climatico, che si snoda da e lungo il confine con il Ciad, a sud, verso la Repubblica Centrafricana e il Sud Sudan, e a nord verso la Libia.
I continui attacchi nei confronti dei civili sembrano essere orientati a spostare i contadini dai loro villaggi per lasciare il posto alle comunità nomadi. Senza contare che i contadini devono fronteggiare anche la minaccia sempre presente del banditismo armato e della criminalità, che hanno causato un’ulteriore destabilizzazione nel Darfur.
Gli osservatori locali incolpano anche le milizie governative, comprese le Forze di supporto rapido (Rsf), principalmente reclutate a livello locale, di non intervenire o peggio di sostenere attivamente una parte nei conflitti locali. E ci sono sempre da considerare i forti interessi che le Rsf mantengono nelle zone di estrazione di oro della regione.
Questa serie di criticità evidenzia l’urgente necessità di intraprendere un’azione concertata tra le agenzie delle Nazioni Unite, i partner internazionali e le autorità sudanesi, per evitare un’ulteriore escalation della crisi, prevenendo così un ripetersi delle violenze che venti anni fa fecero inorridire il mondo intero.