In Africa ci sono oggi oltre 50mila truppe impegnate in operazioni “di pace” sotto l’egida delle Nazioni Unite. Se da un lato si afferma che le numerose missioni di peacekeeping proteggono i civili e riducono le disastrose conseguenze delle guerre, dall’altro è noto che si verificano abusi e molte operazioni presentano gravi carenze.
In questi ultimi anni, ad esempio, le denunce e le condanne per abusi sessuali e violenze d’altro tipo, poste in atto da soldati delle Nazioni Unite, si sono fatte piuttosto frequenti, richiamando la necessità di riformare la modalità d’impiego dei peacekeepers.
Al momento metà delle dodici missioni di pace nel mondo (in totale 90mila caschi blu) si trovano in Africa: area di Abyei, ricca di petrolio, contestata tra Sudan e Sud Sudan (Unisfa); Repubblica Centrafricana (Minusca); Repubblica democratica del Congo (Monusco), la più longeva e corposa, insediata nel 2010; Mali (Minusma); Sud Sudan (Unmiss) e Sahara Occidentale (Minurso).
Altre missioni, con identità più marcatamente militari in chiave anti jihadista, sono gestite dall’Unione africana (Ua), dall’Unione europea (Ue) e da altre formazioni regionali. Tra esse l’Amisom, coordinata dall’Unione africana in Somalia; la Commissione multilaterale per il bacino del lago Ciad (Mnjtf) e il gruppo dei cinque (Mali, Niger, Ciad, Mauritania e Burkina Faso) per il Sahel (G5 Sahel). Nel 2021, inoltre, la missione a guida francese Takuba si era unita ad altre, sempre nel Sahel. Infine la Sadc (Comunità di sviluppo dell’Africa australe) che, insieme a contingenti del Rwanda, ha affrontato, a fianco dell’esercito mozambicano, gli islamisti di al-Shabaab operanti a Cabo Delgado, nel nord del paese.
I funzionari delle Nazioni Unite, nel distribuire le truppe seguono tre criteri: il consenso delle parti in conflitto, l’imparzialità – anche se non la totale neutralità – e l’uso della forza solo per autodifesa. Le attività principali dei peacekeepers sono: protezione della popolazione civile durante i combattimenti; prevenzione o contenimento dei conflitti; ristabilimento delle condizioni di vita nel dopoguerra; implementazione degli accordi di pace e assistenza nel favorire le transizioni democratiche.
A questi si aggiungono spesso il processo di disarmo e smobilitazione nonché la reintegrazione sociale degli ex-combattenti; la rimozione di mine antiuomo; il ripristino dei principi di legalità; la protezione dei diritti umani e l’assistenza nei processi elettorali. Fino all’estate 2021 maggiori fornitori di personale militare e di polizia per le missioni di peacekeeping in Africa erano Bangladesh, Etiopia e Rwanda. E a livello globale Bangladesh, India, Nepal, Rwanda ed Etiopia.
I maggiori finanziatori delle missioni, il cui budget viene monitorato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sono invece Stati Uniti, Cina e Giappone. I soldati vengono pagati dai rispettivi governi, rimborsati poi dalle Nazioni Unite.
Quanto all’efficacia o meno delle missioni di peacekeeping, le opinioni variano molto. Gli aspetti basilari su cui valutarne il risultato sono un miglioramento globale della situazione nei paesi interessati, un sufficiente adempimento del mandato e la fine dei conflitti. Un buon successo hanno avuto in passato le missioni in Costa d’Avorio, Liberia e Sierra Leone.
Il successo è meno garantito in paesi come Repubblica Centrafricana e Rd Congo, dove non c’è seria intenzione di cessare le ostilità. D’altro canto, sono molte le critiche avanzate nei confronti di varie operazioni di peacekeeping: molti casi di cattiva amministrazione, passività e inerzia di fronte ai rischi per i civili, abusi dei diritti umani da parte dei caschi blu, corruzione e traffici illeciti. Azioni e atteggiamenti che hanno provocato una crescente insofferenza da parte delle popolazioni locali.
Nel 2021 un’indagine interna ha concluso che il livello di integrità e di eticità delle forze di peacekeeping è scarso, mentre è cresciuto il numero di casi di cattiva condotta e di abusi. Pochi mesi fa, ad esempio, centinaia di truppe gabonesi vennero ritirate dalla Repubblica Centrafricana e un’indagine è stata aperta dalle Nazioni Unite per abusi sessuali.
Altre denunce in passato non sono mai state seriamente perseguite e in nessun caso si è giunti finora ad una condanna. Anche perché i peacekeepers godono di immunità da ogni procedimento giudiziario nel paese in cui prestano servizio e eventuali azioni legali possono avvenire solo nei paesi da cui provengono.
C’è anche chi mette in dubbio la validità delle missioni di pace, visti i costi di gestione esagerati rispetto ai risultati conseguiti. A suo tempo, peraltro, Donald Trump aveva fissato un tetto al finanziamento annuale delle missioni e ha tentato di ridurre massicciamente le donazioni Usa per le operazioni di pace in Africa.
Nel frattempo, tuttavia, la Cina ha incrementato fortemente il proprio contributo con un piano decennale che prevede un miliardo di dollari di finanziamento per le missioni di pace. Nel 2018 Antonio Guterres, Segretario generale dell’Onu, ha lanciato l’iniziativa Action for Peacekeeping (A4P) in cui sostiene che le missioni di pace vanno organizzate meglio, elaborando chiare strategie politiche, migliorando la sicurezza sia dei peacekeepers che dei civili e preparando truppe meglio addestrate.
A questo il Consiglio di sicurezza ha aggiunto una risoluzione al fine di rispondere più decisamente alle situazioni di abusi e sfruttamento sessuale da parte dei soldati. Si propone anche un migliore coordinamento con l’Unione africana e gli altri gruppi regionali, sia per l’addestramento che per l’equipaggiamento dei peacekeepers. C’è infine chi propone il reclutamento di un numero maggiore di donne tra i peacekeepers, visto che laddove sono presenti le operazioni hanno avuto maggior successo. Una presenza che il Consiglio di sicurezza si propone di raddoppiare di qui al 2028.