Per un osservatore poco attento alle questioni angolane potrebbe essere sembrato un fulmine a ciel sereno. In realtà, la Conferenza episcopale di Angola e São Tomé (Ceast) da tempo ha lanciato critiche, allarmi e anche proposte al governo di Luanda diretto dal presidente João Lourenço, tuttavia senza successo.
Lo stesso stanno facendo da tempo altre organizzazioni della società civile, da quelle impegnate sui diritti umani ai taxisti, ai professori universitari, ai sanitari, per non parlare dei partiti politici di opposizione, in attesa di incerte elezioni che si terranno proprio quest’anno, ad agosto.
Questa volta, però, i toni della Ceast – con un pronunciamento ufficiale pubblicato il 7 febbraio scorso, dopo una riunione svoltasi a Benguela – sono ancora più allarmanti: a fronte di una situazione di povertà che strutturalmente tocca oggi più della metà dei 32 milioni di angolani, nel sud del paese la situazione è drammatica.
La siccità, di cui oggi si fanno sentire i devastanti effetti, dura da tre anni consecutivi e le poche misure dell’esecutivo non hanno sortito quasi nessun effetto. Usando le parole del vescovo di Cabinda, monsignor Belmiro Chissengueti, portavoce della riunione, l’unica via di uscita è la dichiarazione dello stato di emergenza da parte del governo.
Ciò permetterebbe, da un lato l’entrata di aiuti umanitari immediati, dall’altra la possibilità che gli angolani possano “imparare a produrre” quello che consumano, mediante aiuti mirati sulla formazione tecnica. Si tratterebbe, secondo quanto riporta il documento dei vescovi angolani, di un atto di umiltà da parte di Lourenço e dei dirigenti del paese, che naturalmente avrebbe ripercussioni dirette su un clima politico già sufficientemente surriscaldato.
Occorre ricordare che quello dei vescovi appena citato non è l’unico grido di allarme lanciato in tempi recenti sulla situazione di povertà nel paese, e in particolare nel sud.
Oltre a pronunciamenti, anche recenti, della stessa Ceast, il sacerdote e sociologo Pio Wacussanga, della provincia di Huo, ha per esempio più volte allertato su una condizione di povertà estrema e disoccupazione, soprattutto giovanile, che il governo non riesce a combattere, mentre anche influenti membri del partito di maggioranza, come il deputato dell’Mpla Álvaro de Boavida Neto, di Huíla, hanno dato eco a una necessità oggettiva e improcrastinabile: migliorare velocemente le condizioni di vita nel sud dell’Angola.
A nessuno sfugge che l’appello della Ceast ha un evidente impatto politico: dichiarare lo stato di emergenza a pochi mesi dalle elezioni significherebbe, infatti, assumere una patente di incompetenza e, implicitamente, dichiarare agli elettori angolani di non essere più in grado di gestire il paese. E non è dunque un caso che sia stato accolto da critiche.
D’altra parte, il rifiuto (o il silenzio) che sembra essere stato scelto dall’esecutivo guidato da Lourenço non aiuta a risolvere la drammatica situazione che si sta vivendo in almeno otto province.
Di fronte a un partito-stato che si sta contorcendo su se stesso, sperando esclusivamente che una gestione elettorale poco trasparente dia all’Mpla l’ennesima vittoria contro i suoi oppositori, vecchi e nuovi, anche i vescovi cattolici non possono che constatare il fallimento di un modello di sviluppo non soltanto monoculturale (petrolio e diamanti), ma fallimentare dal punto di vista dell’etica pubblica e del sostegno ai più bisognosi, da tempo relegati ai margini del progetto politico di una forza, l’Mpla appunto, che ancora appartiene all’Internazionale socialista, ma che ha fatto del capitalismo cleptocratico il suo modus operandi privilegiato.
Alla situazione dell’Angola in vista delle elezioni di agosto è dedicato il dossier di febbraio