Scriviamo queste righe a un anno esatto dalla morte dell’ambasciatore in Rd Congo Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci, e di Mustapha Milambo, autista del World Food Programme, uccisi in un attacco a Goma, lunedì 22 febbraio 2021.
Sul 43enne diplomatico italiano sono stati scritti fiumi di parole. E ora, per onorarne la vita, è uscito anche un libro intitolato Luca Attanasio. Storia di un ambasciatore di pace (Piemme, 176 pagine, 17 euro e 90). Di lui si racconta come avesse posto il lavoro umanitario al centro della sua missione. In occasione del ritiro del premio internazionale “Nassyria per la pace”, nell’ottobre del 2020, Attanasio volle sottolineare come i diplomatici abbiano «il dovere di dare l’esempio. Parole come pace, salute, istruzione in paesi come l’Rd Congo sono un privilegio per pochissimi».
Lo ricordiamo ora non solo per valorizzarne il lavoro e l’impegno. La sua storia è anche un megafono delle mille contraddizioni che attraversano il nostro corpo diplomatico, specialmente in Africa. Contraddizioni figlie sia di una politica ambigua a livello romano sia di rappresentanti istituzionali che si muovono localmente con una dose di cinismo e ambizione che farebbe evaporare il sogno di Attanasio.
In questo numero di Nigrizia raccontiamo, ad esempio, le troppe complicità, amnesie ed eccesso di realismo politico che accompagnano il lavoro della nostra diplomazia in un paese come l’Uganda, con il rischio di fare gli occhi dolci a un dittatore come Yoweri Museveni.
E stiamo parlando di due paesi confinanti (Rd Congo e Uganda) con problematicità simili e risposte che dovrebbero avere le stesse tonalità.
Non siamo degli ingenui. Conosciamo quanto sia variegato e complesso il lavoro di un diplomatico. Tanti ne abbiamo conosciuti nella nostra esperienza africana. A seconda di dove si trovano e delle condizioni in cui operano, possono avere un ruolo di agente politico, di facilitatore commerciale, di promotore culturale o di cooperante per lo sviluppo internazionale. E, in alcuni casi, tutti questi ruoli mischiati tra loro.
Ma la storia di Attanasio e quella di altri suoi colleghi di paesi confinanti ci insinuano il dubbio che troppo spesso la loro attività sul territorio sia guidata più dalle loro sensibilità che da precise direttive che arrivano dal ministero degli affari esteri e alla cooperazione internazionale.
Un tempo si parlava di “scuola della Farnesina”, da cui uscivano “feluche felpate” poco inclini a roboanti dichiarazioni, spettacolari sfilate e che non esprimevano certamente una teutonica politica di potenza.
Oggi troppo spesso, invece, sono abbandonate un po’ a sé stesse. Ed è difficile dire con precisione cosa un ambasciatore italiano faccia davvero, e cosa significhi, nel concreto, rappresentare il nostro paese. Per diplomatici come Attanasio, l’Italia ha una funzione nel sistema internazionale: promuovere la pace. E quindi il suo lavoro ne era una conseguenza. Per altri è non infastidire le politiche dei paesi che li ospitano. Anche quando sono politiche repressive, violente, totalitarie.
Nessun infingimento: è tangibile la contrapposizione tra realismo politico e principi. Ma a sciogliere il nodo, a indicare la via per un equo compromesso, dovrebbe essere Roma. Senza false diplomazie.
Ambasciate in Africa
La carriera diplomatica, dopo il concorso, è composta di 5 livelli: segretario di legazione, consigliere di legazione, consigliere d’ambasciata, ministro plenipotenziario e infine ambasciatore. Ai primi tre livelli si accede per anzianità. Gli ultimi due gradi invece dipendono da una designazione del ministro degli esteri, approvata dal Consiglio dei ministri.
In Africa ci sono 29 ambasciate italiane (24 in Africa subsahariana), gestite da 12 consiglieri d’ambasciata, 15 ministri plenipotenziari e da due ambasciatori (Giampaolo Cantini al Cairo e Giuseppe Maria Buccino Grimaldi) a Tripoli