Saba è metà eritrea e metà etiopica. Appartiene a due terre e questa doppia discendenza le pesa. Non è facile vivere in equilibrio con sé stessi, se le parti che ti hanno creato sono paesi in guerra. Ed è la guerra che la costringe ad andarsene, con sua madre e suo fratellino Hagos, muto dalla nascita. In un campo profughi, quello somalo, tra i più grandi dell’Africa.
Aveva solo due anni quando è arrivata ad abitare in quel luogo dove convivono genti di varie nazionalità, dove i giorni sembrano non avere tempo, mentre quello invece inevitabilmente trascorre ed è scandito da quel che nel campo accade. Il campo è quel posto in cui si cresce in maniera diversa da come si crescerebbe altrove, anche se la vita viene scandita dalle medesime pulsioni.
Addonia le racconta, senza veli. Partendo da un processo che accusa Saba di aver violentato e ucciso suo fratello. Un processo capace di amplificare il silenzio di una comunità che tace le violenze per cercare di preservare sé stessa. Il silenzio che lega Saba a Hagos, cui mai avrebbe fatto del male. Perché, nonostante fosse il più piccolo, è lui a prendersi cura di lei, sempre. E spesso la cura non ha bisogno di parole, restituisce nel silenzio quello che la vita ti ha sottratto. Perché, come sa bene Saba, «siamo entrati tutti in questo campo come esseri umani, ma solo pochi di noi ne usciranno intatti. Il disgusto è un gusto acquisito», che appartiene a questo universo dove tutto può accadere, anche alla persona a te più cara.