L’iniziativa Pasolini 100 (cento anni dalla nascita dello scrittore e regista) è l’occasione per rivedere Appunti per un’Orestiade africana, primo capitolo di un progetto incompiuto dedicato al Sud del mondo.
Determinato a girare in Africa un film ispirato all’Orestiade di Eschilo, Pasolini effettua dei sopralluoghi in Uganda (Dicembre 1968) e Tanzania (Febbraio 1969 con Moravia, Dacia Maraini, Ninetto Davoli). Il viaggio è occasione per una riflessione visionaria sul cinema che sconfina in analisi antropologica e politica, reportage, esperimento musicale.
Appunti che alternano liberamente quattro blocchi narrativi: i sopralluoghi alla ricerca di attori e location, immagini d’archivio della guerra del Biafra, il confronto con studenti africani dell’Università La Sapienza di Roma, una jazz session con Gato Barbieri e i cantanti afroamericani Yvonne Murray e Archie Savage.
Materiale eterogeneo che il regista utilizza per trasformare l’Africa postcoloniale nello spazio violento e magico di un processo di metamorfosi politica e culturale. Scrive Pasolini che l’Orestiade sintetizza la storia dell’Africa degli ultimi cento anni: il passaggio cioè, quasi brusco e divino, da uno stato “selvaggio” a uno stato civile e democratico.
Passaggio che necessita che le terribili e fantastiche divinità della Preistoria africana subiscano lo stesso processo delle Erinni che si fanno Eumenidi. Non dimenticare, disprezzare e tradire la civiltà arcaica ma integrarla nella civiltà nuova.
L’ardito accostamento tra Africa e Antica Grecia (già presente nel pensiero di Senghor) è anticipato nei titoli di testa che giustappongono le pagine di una traduzione in italiano dell’Orestiade a una cartina dell’Africa. Le inquadrature seguenti mostrano un’immagine doppia: il viso sfocato del regista che si specchia nella vetrina del negozio di una città africana.
Vestiti, libri, foto di Mao, un frigorifero, automobili e un grande albero accompagnano la voce del regista: «Ho scelto per l’Orestiade una nazione africana che mi sembra tipica, una nazione socialista a tendenze, come vedremo, filo-cinesi, ma la cui scelta non è ancora evidentemente definitiva, perché accanto a l’attrattiva cinese c’è un’altra attrattiva non meno affascinante: l’americana o per meglio dire neocapitalista».
Obiezioni e fallimento
Il film procede nella contraddizione, nell’ambiguità, nell’impossibilità di trovare una risposta univoca. Primi piani, campi lunghissimi sulla savana, le grandi città, le fabbriche, le scuole. Come ricorda Dacia Maraini, Pasolini inseguiva i fantasmi di un sogno cinematografico: Oreste, Clitennestra, Cassandra, Egisto. Il palazzo degli Atridi, la tomba di Agamennone, la casa di Elettra. Atene (forse Kampala?) il sacrario di Apollo (L’università di Dar es Salaam?).
Pasolini vuole un film popolare, cerca il coro, usa le immagini d’archivio della guerra del Biafra per evocare la guerra di Troia, cerca all’infinito il fumo che avrebbe avvertito da lontano l’arrivo di Agamennone.
Un flusso poetico nelle profondità del testo omerico che si interrompe quando Pasolini mette in crisi il suo stesso progetto discutendone con alcuni studenti africani dell’Università La Sapienza che reagiscono freddamente, infastiditi dall’ossessione europea per l’Africa tribale e dall’erronea rappresentazione dell’Africa come unità culturale e politica.
Uno scarto improvviso immerge poi lo spettatore dentro ad una session musicale con Gato Barbieri, Sauvage Yvonne Murray e Archie Savage per ricordare la lotta per i diritti civili degli afroamericani. Il flusso di immagini riprende ma la contraddizione rimane irrisolta come enuncia il regista che chiude con immagini di contadini intenti al lavoro sulle note di una canzone rivoluzionaria sovietica.
Ancora una volta l’Africa viene usata come schermo sul quale proiettare le proprie fantasie orientaliste, in questo caso la ricerca utopica di un soggetto rivoluzionario puro. È qui anche tentativo di fare cinema di poesia unendo antropologia e sperimentazione cinematografica.
Solidarietà femminile
Nelle sale anche Una madre, una figlia del regista ciadiano Mahamat-Saleh Haroun, già presentato a Cannes. Amina e sua figlia Maria, di 15 anni vivono nella periferia di N’Djamena, in Ciad, un paese in cui l’aborto è condannato dalla religione e della legge. Quando scopre che la figlia è rimasta incinta e vuole interrompere la gravidanza, Amina inizia una battaglia apparentemente impossibile…
Una madre coraggio che si muove nelle strade di N’Djamena (come già Félicité nella Kinshasa di Alain Gomis) schivando uomini predatori (l’imam, il vicino, il cognato) e aggrappandosi ai sacri legami della solidarietà femminile (Lingui del titolo originale).
Con una storia piena di ellissi e suggestioni, il regista celebra un femminismo non teorico ma concreto, rappresentando i corpi delle donne al lavoro, immersi nelle sfumature dorate della luce e nella densa notte di N’Djamena. Qualcosa stride, forse le immagini troppo estetizzanti, forse un eccessivo ottimismo che ci fanno rimpiangere i precedenti film del regista.