Si tratta di soffermarsi prima di tutto sulle foto di maschere e statue, feticci e altari, reliquiari e oracoli, vasi e utensili. E ascoltare ciò che raccontano. Mentre ascoltiamo, siamo indotti a leggere la contestualizzazione culturale ed etnica che ne fa l’autore, un ingegnere «con il gusto del bello», individuando quattro ampie aree: Sudan occidentale, costa di Guinea, foresta equatoriale e savana.
In un secondo momento è il caso di leggere la prefazione di Agbonkhianmeghe E. Orobator, gesuita nigeriano, presidente dell’Hekima University College di Nairobi. Un passaggio: «Le mie impressioni più profonde possono essere riassunte in tre punti. L’arte africana non è né statica né muta. L’arte africana è terapeutica: in molti casi, i manufatti non sono solo oggetti impersonali, perché funzionano come ricettacoli e mediatori degli spiriti.
L’arte africana è una realtà viva». In una nota introduttiva, Alberto Salza, antropologo che si definisce “analista del terreno umano”, ci dis-orienta così: «Lo scultore africano di un tempo, protagonista di questo libro, lavorava essenzialmente il legno, l’osso, l’avorio. Sono resti di organismi morti. L’elefante va ucciso e l’albero tagliato.
Questo fine-vita violento lascia essenza nella materia dello scultore. Essenza: parola che usiamo nel senso di “specie arborea” o del legno da essa derivato. Essenza della materia: il sostituto immateriale di qualcosa che noi occidentali chiamiamo “anima”». Le opere fotografate fanno quasi tutte parte della collezione dell’autore.