Si chiama “Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo stato della Libia e la Repubblica italiana”. Da inizio anno si può leggere anche numericamente: 5.711 persone migranti riportate indietro, da gennaio al 14 maggio, dalla guardia costiera libica, addestrata in Italia e che agisce su motovedette donate dal nostro stato (lo scorso anno si leggeva 32.425). Un numero a cui, per completezza, occorre aggiungerne altri due (aggiornati al 14, che non tengono conto dei 4 morti e 10 dispersi del 19 maggio) che riguardano le persone decedute nel mar Mediterraneo centrale, 114, e quelle naufragate e mai ritrovate, 438.
A fare un excursus storico su come si sia arrivati alla firma di questo patto tra Italia-Libia, avvenuta il 2 febbraio del 2017, e su quali siano le conseguenze sulle vite delle persone che partono dalle coste libiche, sono stati Asgi (l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e Amnesty international, con un’intera giornata dedicata al tema, che aveva come titolo “A cinque anni dalla firma del Memorandum: quale accesso alla protezione per le persone migranti in Libia”. Una conferenza che serve a ricordare come il patto scada il 2 febbraio 2023. E, per evitare che prosegua per altri tre anni, con rinnovo tacito, occorre, entro il 2 novembre di quest’anno, fermarlo.
Prima di iniziare la storia degli accordi tra i due paesi, Matteo de Bellis di Amnesty fa riferimento all’oggi, alla «risposta europea di questi ultimi mesi alla guerra in Ucraìna, che vede applicata per la prima volta la direttiva del 2001 sulla protezione temporanea. Una protezione che dimostra come l’accoglienza sia frutto di una volontà politica, e che mette in evidenza come ci si trovi davanti a un approccio diverso nel trattamento dei profughi, a un’ipocrisia. Continuano le politiche di esclusione, gli attacchi al diritto d’asilo solo per alcuni, vittime di respingimenti, grazie a patti di cooperazione con paesi terzi che servono per fermare le persone».
Una storia lunga 16 anni
Una storia lunga, che non inizia né oggi, né cinque anni fa con la firma del Memorandum da parte dell’allora governo Gentiloni e del ministro dell’interno Minniti. Gli anni, ricorda de Bellis, sono molti di più: 16. I primi protocolli bilaterali tra Italia e Libia sono datati 2006 e già prevedono pattugliamenti e respingimenti. Sono gli anni di Gheddafi, ma poco cambia anche dopo la sua caduta. La politica di accordi per rafforzare la guardia costiera prosegue, e nel 2017 si assiste a un’accelerata fortissima.
«A luglio 2017 ci sarà un primo tentativo di creare la zona Sar (sigla che sta a significare le azioni di Search and Rescue, cioè di ricerca e soccorso, ndr) libica, per permettere alla guardia costiera del paese africano di coordinare internamente una zona più ampia. Un tentativo che fallisce per un problema tecnico, ma che riesce nel dicembre dello stesso anno. E così, arrivano le donazioni di motovedette, gli addestramenti alla guardia costiera, droni e aeroplani per segnalare i migranti che si trovano in mare; la donazione di un container che diventa l’ufficio di coordinamento per le attività libiche. È il periodo, questo dell’estate 2017, in cui parte una forte campagna contro le navi ong e, con Minniti si arriva al discusso “codice di condotta” che prevede misure di sequestro delle imbarcazioni che non lo sottoscrivono».
Accordi, questi con la Libia, che, dal 2016 a oggi, hanno visto riportare indietro oltre 100mila persone. Il 2021 è stato l’anno record con 32.425. Tutto questo, nonostante non ci sia alcuna sicurezza di garanzia del rispetto dei diritti umani in Libia. Cosa accade nei lager è oramai noto a tutte e tutti. E per quanto il Memorandum preveda delle “attività compensative” che dovrebbero essere messe in atto da Unhcr, l’Italia ha una responsabilità su quel che accade durante i respingimenti e sulle violazioni dei diritti.
Responsabilità italiana
«C’è la difficoltà di identificare il giudice competente, perché si è appaltata una politica di respingimento. Ma nonostante quel che è stato sottoscritto nel Memorandum – spiega Francesca De Vittor dell’università cattolica del Sacro cuore di Milano –, c’è una responsabilità dello stato italiano, così come del soggetto privato che agisce sotto la direzione e controllo di questo. Pensiamo alle navi italiane che hanno collaborato ai respingimenti e per le quali ci sono stati processi. Il mancato soccorso in mare, lo sbarco in un porto che non può essere considerato sicuro vanno contro il diritto marittimo e internazionale. E questo prescinde dalle varie zone Sar: quando vi è un evento di pericolo chi riceve notizia ha l’obbligo di organizzare il soccorso immediatamente».
Una responsabilità che non si esaurisce demandando, perché il finanziamento alla Libia comporta una complicità nell’illecito commesso. Una responsabilità che non si cancella neanche, secondo l’avvocata Cristina Cecchini di Asgi, con i pochissimi corridoi umanitari attivati dall’Unhcr fino a oggi. Del tutto insufficienti per compensare «le violazioni subite dalle persone migranti in conseguenza del blocco delle partenze, reso possibile dai finanziamenti elargiti alle autorità libiche e non sono idonee in alcun modo a garantire il diritto d’asilo».
Cancellare il Memorandum però non è sufficiente. La cooperazione tra Italia e Libia deve essere orientata verso l’incremento delle possibilità di accesso sicuro e legale. Anche l’accoglienza può cambiare, l’accoglienza riservata a chi scappava dall’Ucraìna lo ha dimostrato. L’anno scorso sono arrivate via mare poco più di 60mila persone in un anno, dall’Ucraina nei primi due mesi di guerra sono entrati in Italia oltre 80mila profughi.