In molti lo avevano preventivato da tempo: una situazione come quella che si sta vivendo in questo momento in Mozambico non è sostenibile. Da nessuno, neanche da un popolo considerato pacifico, talvolta passivo, come quello mozambicano.
Stamane la Grande Maputo si è svegliata senza trasporti semi-pubblici (gli chapa, camionette senza alcuna condizione che possono ospitare 16 persone, ma che ne caricano fino a 30 o più), con le periferie bloccate a causa di uno sciopero dei trasportatori di quei mezzi che rappresentano, in pratica, l’unico sistema per raggiungere il centro della capitale dalle periferie, Zimpeto, Matola, Marracuene…
E che hanno iniziato a bloccare, con le buone o con le cattive, qualsiasi mezzo privato osasse mettersi sulla strada. Per la terza volta dall’inizio dell’anno, il costo del trasporto è aumentato, con la benzina che si paga alla pompa circa 1,20 euro, e il gasolio 1,32, con un sorpasso di quest’ultimo combustibile sulla benzina stessa.
Il prezzo di farina, riso e altri generi di prima necessità sta al contempo aumentando, inevitabilmente, ma anche grazie a speculazioni che il governo di Maputo non riesce a contrastare.
Non è la prima volta che queste manifeestazioni accadono: già nel 2008 e nel 2010, sotto il presidente Armando Guebuza, si registrarono episodi analoghi. La soluzione del governo fu semplice: repressione. Sia nel breve (ci furono una ventina di morti in tutto), che a medio e lungo termine (controllo delle linee telefoniche e polizia a ogni angolo di strada), concessione di sussidi, non ai cittadini, bensì alle organizzazioni del trasporto semicollettivo di cui sopra, in modo da non far aumentare il costo del biglietto dello chapa.
Una misura, oggi, poco proponibile, anche se l’esecitivo ci sta seriamente pensando: le condizioni del bilancio pubblico, infatti, sono al limite del collasso, anche a causa di un debito occulto di 2,2 miliardi di dollari che pesa come un macigno sulle casse dello stato, e che proprio il governo Guebuza ha lasciato in eredità, nel 2014.
È questo il clima che il presidente della repubblica italiana, Sergio Mattarella, ha trovato a Maputo, in occasione della sua visita, dal 4 al 6 luglio. Una visita che, da quel che si comprende dall’agenda ufficiale, ha come obiettivo principale l’annosa questione del gas e dell’approvvigionamento energetico in favore dell’Italia.
Come noto, il Mozambico è uno dei paesi coi maggiori giacimenti di gas al mondo, presso il bacino del fiume Rovuma, che divide il Mozambico dalla Tanzania. Dal 2017, però, l’estrazione di gas è praticamente bloccata, a causa di attacchi terroristici nella provincia settentrionale di Cabo Delgado.
Anche Exxon Mobil, come ha fatto Total, sta ritardando le operazioni, in attesa di vedere come si svilupperà la situazione relativa alla sicurezza dell’intera area. La previsione di una prima estrazione entro la fine di quest’anno dovrebbe essere mantenuta, col decisivo supporto tecnico di Eni, che era stata capofila del progetto, e ha poi venduto la maggioranza delle proprie azioni.
Come di solito accade in questi casi, però, in Mozambico resterà poco o niente: quasi tutto il gas prenderà la via di mercati esteri, europei e asiatici, in un paese dove circa il 65% della popolazione non ha accesso all’energia elettrica a livello domestico, nonostante possegga la quarta centrale idroelettrica del continente, Cahora Bassa, la cui produzione (come sarà per il caso del gas) si destina essenzialmente all’export verso Sudafrica (110 Mw) e Zimbabwe (400 Mw), restando al Mozambico una parte minoritaria dell’energia prodotta da questo gigante (250 Mw).
Questo modello “extravertito” di sviluppo, che porta ricchezza all’elite politica locale e povertà diffusa nel resto del paese, produce, a intervalli regolari, manifestazioni di rabbia e impotenza con vere e proprie jacquerie, poco organizzate e violente, che non risolvono tuttavia una situazione sociale in rapido peggioramento.
In un certo senso Mattarella è stato fortunato a capitare in Mozambico proprio nei giorni di questi tumulti urbani: avrà così modo di comprendere come il sogno mozambicano – che buona parte della stampa italiana continua a proporre – sia finito da tempo, e che il paese risulta sempre più diviso fra la chimera del gas (per gli altri) e la realtà di un’esistenza insostenibile (per i locali).