Sono 150 i ghetti presenti sul territorio italiano. La prima indagine, voluta dal ministero del lavoro e politiche sociali, in collaborazione con l’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani, intitolata Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare, li definisce “insediamenti informali”. Ma di fatto sono ghetti, formati da baracche, casolari abbandonati, tende e malmesse roulotte, dove abitano oltre 10mila persone di origine straniera che lavorano nelle campagne. Manodopera fondante il comparto dell’agroalimentare.
150 ghetti, sparsi in 38 comuni, divisi in undici regioni lungo lo Stivale. Presenti per lo più tra Puglia e Sicilia, Calabria e Campania. Foggia, la provincia con il numero maggiore di insediamenti (8 i comuni coinvolti, oltre il 20% del totale), seguita dalla provincia di Trapani (4), Reggio Calabria (3), Andria-Barletta-Trani (2), Caserta (2), Cuneo (2) e Rovigo (2).
Realtà dalle dimensioni diverse (gli insediamenti più grandi, quelli che superano il migliaio di persone, sono a Borgo Mezzanone, frazione di Manfredonia, dove si contano 4 mila presenze, e nel gran ghetto di Rignano a San Severo, dove sono oltre 2mila presenze), in cui lo stato consente che si viva nel totale degrado, senza servizi sanitari e igienici.
Dove mancano interventi finalizzati all’integrazione, la mediazione culturale, l’alfabetizzazione. Dove spesso è presente il caporalato e il lavoro irregolare è all’ordine del giorno. Insediamenti che, nel 41,3% dei casi, hanno carattere stabile e permanente. Basti pensare che undici, tra questi, esistono sul territorio da oltre 20 anni; 16 fino a dieci anni, 21 da sei, 27 da uno a tre anni. Non nuove realtà, dunque.
Dove lo stato è assente
Un fenomeno, questo dei ghetti dove abitano le persone migranti che servono alle campagne, oramai cristallizzato, non scoperto di certo grazie all’indagine. Caratterizzato dalla totale assenza statale. Qui, si legge nel rapporto, «nella maggior parte dei casi, non sono presenti servizi essenziali e le condizioni di vita risultano estremamente precarie». E non solo, mancano i servizi, si vive in mezzo al nulla: «molto scarsa (meno del 30% dei casi) risulta essere la presenza nelle vicinanze degli insediamenti informali di servizi pubblici di trasporto».
Il che vuol dire che spesso gli spostamenti delle persone che devono raggiungere i campi per lavorare vengono eseguiti dai caporali o avvengono attraverso trasporti inadeguati. «Sono infatti superiori al 40% gli insediamenti informali che si trovano oltre i 10 chilometri di distanza dai luoghi di lavoro e, fra questi, quasi il 10% è distante oltre 50 km».
Non è un caso, dunque, che proprio il fenomeno del caporalato risulti essere più presente proprio qui, nei ghetti (25,8% dei casi), che negli insediamenti formali (10,4%), dove ovviamente è più facile un minimo di controllo e dove è possibile aver accesso a realtà che possono offrire servizi di tutela e garanzia alle persone che vi risiedono.
Sospesi nell’accoglienza presenti nei campi
E se la maggioranza dei 3.851 comuni di tutta Italia coinvolti nell’indagine riporta che il 78,8% di chi lavora nel settore agricolo vive in abitazioni private. Tra quel poco meno del 22% dei comuni che riporta la presenza di strutture alloggiative temporanee o stabili, attivate da soggetti pubblici o privati, occorre guardar dentro.
È qui, infatti, che si trova una realtà che dovrebbe far pensare e che riguarda circa 7mila braccianti. Lavoratori in prevalenza rifugiati e richiedenti asilo che si trovano per lo più in appartamenti riconducibili alla rete dell’accoglienza diffusa, quelli che un tempo si chiamavano Sprar e ora Sai (44%), o nei Centri di accoglienza straordinaria, Cas (10,3%) o appartamenti trovati dalle realtà associative che si occupano di immigrazione. Il che racconta quante persone in attesa di un riconoscimento di legalità siano già forza lavoro attiva e necessaria sul territorio.
Qua, come nel caso dei ghetti, nella grande maggioranza dei casi (90,4%) si trovano cittadini extracomunitari: Marocco, Bangladesh, Tunisia, India, Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio, Gambia. A cui si affiancano i migranti europei, presenti in circa un quarto degli insediamenti e provenienti per lo più dai paesi dell’Est Europa (Romania, Bulgaria, Polonia).
L’indagine, la prima nazionale condotta dal ministero, sarebbe finalizzata alla spesa di 200 milioni di euro che sono stati stanziati per «superare gli insediamenti abusivi». I comuni interessati a questa voce, si legge nel rapporto, avrebbero a disposizione mille unità abitative per ospitare le diecimila persone che risultano ufficialmente censite.
Rimane una perplessità. Nell’indagine si riporta che negli ultimi tre anni, «dei 608 comuni che hanno dichiarato la presenza di migranti impiegati nel settore agroalimentare, in 54 (8,9%) hanno realizzato interventi riconducibili alla riqualificazione di immobili pre-esistenti o all’edilizia residenziale pubblica». Solo l’8,9%, nonostante fosse a conoscenza della realtà, ha portato avanti politiche atte a gestire questo fenomeno. Si spera che, con l’arrivo dei nuovi fondi, più amministrazioni siano incentivate alla partecipazione di questi progetti.