Sono 22 anni che la Missione delle Nazioni Unite in Congo (Monusco) è dispiegata nel nordest del paese con lo scopo di porre un argine all’insicurezza che la fa da padrona nelle province dell’Ituri, Nord Kivu e Sud Kivu, dove si contano decine di gruppi armati.
In questi anni si sono verificati numerosi episodi di malcontento nei confronti del caschi blu. E ieri a Goma, capoluogo del Nord Kivu, centinaia di manifestanti hanno protestato contro l’inefficacia della Monusco e alcuni di loro preso d’assalto due edifici della forza di pace, facendo razzia di mobili ed equipaggiamenti.
La popolazione è esasperata perché è sottoposta a continue tensioni – le uccisioni di civili da parte dei gruppi armati sono all’ordine del giorno – e non intravede un miglioramento della situazione. E chiede addirittura che la Monusco se ne vada. «La loro presenza non ha portato a nulla». Sostengono i manifestanti. Che sono in buona compagnia: un decina di giorni fa, il presidente del senato, Modeste Bahati, ha chiesto alla Monusco di «levare le tende».
La Monusco in questo momento conta 14mila caschi blu e costituisce un costo rilevante per la comunità internazionale. Ma sarebbe fuorviante addossare alla Monusco ogni responsabilità sulla destabilizzazione del nordest. Non va dimenticato che dal maggio 2021 l’Ituri e il Nord Kivu sono in mano all’esercito congolese, le istituzioni civili sono sospese e vige lo stato d’assedio. Inoltre, dallo scorso novembre, reparti dell’esercito ugandese operano in territorio congolese in accordo con l’esercito di Kinshasa. E risultati non se ne vedono.
Non lontano da Goma, il 22 febbraio 2021, sono stati uccisi in un’imboscata l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo.
Intanto il governo del presidente Tshisekedi si è affrettato a «condannare gli attacchi contro il personale e le installazione delle Nazioni Unite»