Il fatto che il Sud Sudan non fosse in condizioni di andare al voto tra sei mesi era cosa risaputa. Ora è una certezza. Il 4 agosto il settantenne presidente Salva Kiir e il suo ex rivale, il primo vicepresidente Riek Machar (69 anni), hanno annunciato di aver esteso di almeno 24 mesi il periodo di transizione previsto nell’accordo di pace, siglato a settembre 2018 per porre fine a cinque anni di conflitto.
Saltano, dunque, le elezioni generali che avrebbero dovuto chiudere la già lunga transizione il 22 febbraio prossimo. E non è chiaro, ancora, quando il paese potrà andare al voto, se nel febbraio del 2024 o a dicembre dello stesso anno, come annunciato da Machar durante la presentazione del nuovo accordo a Juba. Fino alla fine di luglio, infatti, non c’era pieno accordo sulla durata dell’estensione, se di 24 o di 36 mesi.
Durante la cerimonia, Kiir ha cercato di rassicurare, sostenendo che la proroga non è uno stratagemma per mantenere il potere, ma è una mossa calcolata per evitare un’altra guerra civile: «Sappiamo che questo governo di transizione non è quello che il paese merita, ma è meglio della guerra».
«Ritengo – ha proseguito – che la riunificazione dell’esercito, l’elaborazione della costituzione e lo svolgimento di un censimento siano necessari per attuare le elezioni e stabilire un nuovo governo senza tornare alla guerra. Riunificare l’esercito significa proteggere i risultati delle elezioni da chi li userebbe per creare occasioni di violenza». «Il processo costituzionale – ha aggiunto – determinerà il tipo di governo di cui abbiamo bisogno».
Il presidente ha così implicitamente ammesso che in questi ultimi quattro anni nulla è stato fatto per implementare la road map prevista dall’accordo di pace. Cosa che è stata dichiarata candidamente anche da Machar: «Il 72,7 per cento dell’accordo non è stato attuato».
Nuovi attriti internazionali
La proroga del periodo di transizione non è piaciuta ad alcune organizzazioni della società civile, ma sopratutto ai paesi occidentali che ne sostengono il percorso e che da tempo manifestano scetticismo riguardo alla reale volontà dei vertici istituzionali di andare al voto.
In particolare, i vertici delle missioni di Stati Uniti, Regno Unito e Norvegia (Troika), hanno espresso preoccupazione per il fatto che il processo non includesse tutte le parti firmatarie della pace. In una dichiarazione, i tre paesi hanno chiesto consultazioni inclusive sull’estensione della transizione e una tabella di marcia chiara, che “deve dimostrare come un’altra estensione differirà dalle precedenti e includerà passaggi per chiari progressi nella creazione delle istituzioni e dei meccanismi necessari per tenere le elezioni”.
Pochi mesi fa, il gruppo di esperti delle Nazioni Unite sul Sud Sudan, nel suo rapporto al Consiglio di sicurezza, ha affermato che l’accordo di pace rivitalizzato del 2018, invece di mitigare, è diventato un fattore che contribuisce ad alimentare la violenza in tutto il paese.
E che: “ogni componente dell’accordo è ostaggio dei calcoli politici delle élite militari e di sicurezza del paese, che usano una combinazione di violenza, risorse pubbliche sottratte indebitamente e clientelismo per perseguire i propri ristretti interessi”. In parallelo, potenti funzionari del governo hanno cercato di erodere l’unità dei principali gruppi di opposizione, corteggiando alti comandanti e ottenendone la defezione.
Di fatto, il Sud Sudan non ha mai conosciuto libere elezioni dal giorno dell’indipendenza dal Sudan, il 9 luglio 2011 – arrivata dopo dieci anni di guerra -, e da allora è rimasto in balia di Kiir e Machar e della loro élite politico-militare. L’unico periodo di relativa pace per la martoriata popolazione sono stati i due anni seguiti all’indipendenza, dopodiché Kiir e Machar scatenarono un conflitto interetnico che affossò per altri cinque anni ogni sogno di prosperità e convivenza.
Attualmente, 2 milioni di persone restano sfollate internamente e altri 2,3 milioni sono rifugiate nei paesi vicini, con oltre due terzi della popolazione – quasi 9 milioni di persone – che patisce la fame e necessita di assistenza umanitaria.
Nel loro rapporto, lo scorso giugno, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) e il Programma alimentare mondiale (Pam) hanno identificato il Sud Sudan come uno dei sei “punti caldi della fame” nel pianeta quest’anno, definito con lo stato di “massima allerta” come hotspot con condizioni catastrofiche, assieme a Etiopia, Nigeria, Somalia, Yemen e Afghanistan.