“Noi burkinabè stiamo giocando un pernicioso ruolo autodistruttivo (…) diffondendo messaggi che incitano all’intolleranza religiosa ed etnica che possono essere fonte di scontri estremamente violenti”. Ad affermarlo è El Hadji Moussa Koanda, presidente della Federazione delle associazioni islamiche del Burkina Faso (Faib) che avverte: “Stiamo così demolendo la nostra coesione sociale, il nostro vivere insieme”.
In un comunicato, diffuso il 28 agosto, al termine di un seminario che ha riunito nella capitale Ouagadougou più di 700 imam e predicatori provenienti da tutto il paese, la Federazione per la prima volta interviene con decisione denunciando “l’intolleranza religiosa ed etnica” che rischia di essere “fonte di scontri violenti estremi, o di stigmatizzazione etnica e comunitaria”.
La dichiarazione arriva dopo appelli all’odio e all’omicidio dei fulani (o peul), lanciati sui media e sui social network – in particolare WhatsApp – contro il vasto gruppo etnico accusato di legami con i movimenti jihadisti armati legati ad al-Qaida e allo Stato islamico che insanguinano il paese dal 2015 – da allora sono oltre 2mila i morti e 1,5 milioni gli sfollati – e dominano parte del territorio nel nord e nell’est del paese.
Nel tentativo di ricucire il tessuto sociale, i leader musulmani hanno quindi mobilitato tutti gli imam e i predicatori con un duplice obiettivo: lavorare per “promuovere la riconciliazione nazionale e la coesione sociale”, e “stimolare una mobilitazione generale per l’unica battaglia che valga la pena oggi: una lotta multiforme e implacabile per ripristinare l’integrità del nostro territorio, per il ritorno della sicurezza e della pace”.
«In Burkina abbiamo più di 8mila villaggi e in ogni villaggio ci sono almeno uno o due imam. E ogni imam, cinque volte al giorno, ha più di 1.000 fedeli che lo seguono, quindi se queste persone diffondessero il messaggio, potrebbe essere produttivo per la pace e la coesione sociale nel paese”, ha spiegato Koanda.
La diffusione di messaggi di odio e violenza preoccupa anche i militari golpisti al governo, saliti al potere il 24 gennaio promettendo azioni efficaci contro i movimenti jihadisti ma rivelatesi poi incapaci di contrastare la sempre più capillare diffusione della loro propaganda e del dominio del territorio, e di fermare gli attacchi mortali, divenuti invece sempre più frequenti.
Nei giorni scorsi il governo ha denunciato “appelli diretti e attivi per omicidi, uccisioni di massa, pulizia etnica e sedizione”, affermando la volontà di “agire con determinazione e fermezza prima che accada l’irreparabile”.