L’annuale incontro tra i governatori dei consigli di amministrazione del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale si è svolto a Washington dal 10 al 16 ottobre scorso.
Oggetto delle discussioni sono temi salienti di interesse comune: prospettiva economica globale, lotta alla povertà, programmi di sviluppo internazionale, efficacia dei programmi pianificati in precedenza e sistema finanziario globale.
Alla fine del convegno molti attivisti politici, lobbisti, agenti di sviluppo, membri di organizzazioni non governative e investitori, hanno espresso frustrazione per il fallimento di qualsiasi significativo passo in avanti riguardo alla riduzione del debito per le nazioni più povere.
Due anni or sono, il gruppo dei G20 aveva elaborato un meccanismo, finalizzato a creare una veloce e globale revisione del debito per i paesi schiacciati sotto tale peso a causa della pandemia del Covid, che conducesse ad una moratoria del debito stesso. Una situazione aggravata successivamente da altre contingenze negative.
L’insuccesso è stato causato soprattutto dall’assenza dei maggiori creditori dal tavolo di discussione per promuovere con essi un’azione congiunta così da formulare nuovi parametri debitori, volti a far evitare il rischio di nuove sollevazioni popolari in paesi sempre più soffocati dal debito.
Il debito estero privato e pubblico combinato degli stati africani è più che quintuplicato tra il 2000 e il 2020.
Le nazioni più povere nel 2022 hanno accumulato 35 miliardi di dollari solo per pagare gli interessi sul debito a governi o creditori privati. Gli istituti di credito pubblici e privati cinesi rappresentavano il 12% dei 696 miliardi di dollari del debito estero del continente nel 2020. E a ottobre 2022 erano 19 i paesi subsahariani in difficoltà o a rischio di totale inadempienza, secondo il Fmi.
La responsabile del Fmi, Kristalina Georgieva in un incontro a Londra dopo il convegno di Washington ha dichiarato: «Il tempo che viviamo non ci è amico, crescono i ratei degli interessi, il dollaro è super quotato e il peso del debito è cresciuto». La sfida per molti paesi, soprattutto dell’Africa, è davvero notevole.
Lo Zambia, ad esempio, primo paese africano divenuto inadempiente nel 2020, e oggi protagonista di una sorprendente rinascita, fatica ad avviare trattative per rinegoziare i suoi 6 miliardi di debito con la Cina. Mentre, proprio grazie alle recenti politiche virtuose, riceverà un prestito di 270 milioni di dollari, annunciato il 26 ottobre dalla Banca mondiale, dopo quello di 1,3 miliardi di dollari concesso ad agosto dal Fmi.
Nuovi indebitamenti, dunque, che permettono comunque di far fronte alla crisi e ripagare in parte gli interessi accumulati. Ma non quelli con la Cina. Una situazione che lo accomuna a quattro altri stati africani – Angola, Etiopia, Kenya e Nigeria – nei quali si concentra la maggior parte del debito del continente con Pechino.
Anche la ristrutturazione del debito dell’Etiopia è rimasta del tutto bloccata, ma per il conflitto interetnico scoppiato nel 2019 che ha inoltre aumentato considerevolmente il peso finanziario sulle casse statali.
Quanto al Ciad, che per primo aveva chiesto, nel 2021, che si formulasse un quadro comune circa il problema del debito, non dovrebbe dopotutto necessitare di una ristrutturazione del debito grazie all’aumento del prezzo del petrolio che gli consente di soddisfare i creditori.
La Cina, peraltro, il paese col più alto credito a livello mondiale nei confronti delle nazioni più povere, ha suscitato lo sdegno di molti partecipanti all’incontro di Washington per l’atteggiamento intransigente assunto riguardo alla necessità di riscuotere i crediti.
Mentre i rappresentanti degli Stati Uniti hanno denunciato che l’atteggiamento di Pechino potrebbe far cadere dozzine di paesi a basso e medio reddito, in una spirale di molti anni di incapacità a coprire gli interessi sul debito contratto.
In tal senso, Janet Yellen, segretaria del ministero del tesoro statunitense, e altri leader occidentali, hanno fortemente criticato la Cina, come principale responsabile nel bloccare eventuali accordi per una ristrutturazione del debito.
Ѐ il risvolto politico della storica lotta tra le due potenze che non da oggi si gioca sul fragile terreno africano. Un nuovo episodio della lunga serie di recriminazioni mosse dagli Usa a Pechino, accusata di attuare la “trappola del debito”, ovvero il potere di uno stato creditore di imporre ad uno debitore scelte politiche nazionali e internazionali a suo favore (sostenere una posizione con il voto in sede Onu, favorire l’installazione di basi militari e altro).
Secondo Kevin Gallagher, direttore del Centro per la politica di sviluppo globale dell’Università di Boston, il tesoro statunitense deve mostrare maggior decisione nei confronti dei creditori privati, come fece a suo tempo in Iraq o nel processo di revisione del risarcimento da parte dei paesi poveri più pesantemente indebitati.
«Abbiamo dimostrato negli anni novanta – commentava Gallagher – che è possibile costringere, con una politica di bastone e carota, il settore creditizio privato a sedersi a un tavolo e trattare; purtroppo non sembriamo per nulla intenzionati ad usare tale metodo». E ha concluso: «È un po’ come uno che entrando in una sala d’emergenza con una ferita sanguinante alla testa, si sentisse dire che sta bene e non ha problemi».
C’è da dire che la Cina alla fine del 2020 ha cancellato 113 milioni di dollari di debiti a vari paesi africani. Mentre quest’anno, al Forum per la cooperazione Cina-Africa, Pechino ha promesso un’ampia riduzione del debito per alcuni dei paesi più poveri, impegnata a non chiedere il rimborso di prestiti giunti a scadenza ma che 17 stati africani non erano riusciti a ripagare.