Mentre si scende in piazza contro il rinnovo del Memorandum Italia-Libia, mentre il neoministro Matteo Piantedosi convoca il primo Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica rivendicando la direttiva nei confronti delle navi delle ong, in nome dei decreti sicurezza del governo Conte I (decreti che ha contribuito a scrivere insieme all’allora ministro dell’interno, oggi delle infrastrutture, Matteo Salvini), ActionAid denuncia la mancanza di verifica e tracciamento delle risorse che parlamento e governo italiano hanno speso per esternalizzare le frontiere soprattutto in Libia e Tunisia.
Dal 2015, secondo la piattaforma The big wall, strumento dell’organizzazione internazionale per monitorare la spesa di quei fondi indirizzati al contrasto delle migrazioni, le risorse impiegate con questa finalità sono aumentate in maniera esponenziale. Quel muro invisibile ma ben finanziato da Italia ed Europa sul mar Mediterraneo non ha solo un costo enorme di vite umane (25mila dal 2015 a oggi) ma ha anche un importante costo economico.
A mostrarlo sono i due approfondimenti pubblicati da ActionAid e che riguardano proprio le spese per il controllo delle frontiere libiche e tunisine. Frontiere non casuali, se si tiene conto dei numeri che ieri Piantedosi ha diffuso dopo l’incontro del comitato: tra gli oltre 80mila sbarchi avvenuti in Italia da inizio anno e riportati dal conteggio del cruscotto del Viminale, la “spinta migratoria” proveniente dalla Libia sarebbe aumentata del 75,83% a causa dell’instabilità interna del paese, quella in arrivo dalla Tunisia del 25,96%.
I soldi alla Libia
Due paesi che però sono anche tra i maggiori beneficiari proprio dei fondi destinati a fermare e contenere i flussi in quella rotta mortale che è il Mediterraneo centrale. Il tanto discusso Memorandum Italia-Libia, siglato nel 2017 – che si rinnoverà tacitamente per altri tre anni il prossimo febbraio se, entro il prossimo 2 di novembre il governo non interverrà in qualche modo per cancellarlo -, ha visto crescere a dismisura le risorse dell’Eutf, il Fondo di emergenza dell’Ue per l’Africa, creato ad hoc per finanziare il contrasto all’immigrazione che parte dal continente per arrivare in Europa.
All’interno di quel progetto che, non a caso, è stato chiamato “Sistema integrato del controllo delle frontiere in Libia” (Sibmmil), e approvato nel 2017, si prevedeva un fondo complessivo di 44,5 milioni di euro, di cui 12 affidati all’Oim, Organizzazione internazionale delle migrazioni, e i restanti 32,5 gestiti dall’Italia. Secondo The big wall fra questi «è stato possibile tracciare solo 20milioni di euro con certezza: 1,5 milioni per nuovi motori delle motovedette, 2 milioni per equipaggiamenti nautici, 30 fuoristrada, 20 gommoni, consulenze e formazione, moduli abitativi per gli addestratori italiani per il Centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio in mare che oggi è gestito direttamente dalle autorità libiche».
Il resto non pervenuto, o meglio non tracciato. Di certo, quel che si sa, è che con questi fondi si è provveduto ad aumentare i respingimenti in mare da parte della guardia costiera libica che, in maniera sempre più frequente, ha provveduto a riportare indietro le persone migranti e a rinchiuderle ancora in quei centri di detenzione, spesso governativi e finanziati con soldi europei, dove continuano a subire torture e abusi. Ai primi di ottobre le persone riportate indietro erano oltre 16mila.
…e quelli alla Tunisia
Cambiando frontiera e focalizzandosi sulle coste della Tunisia, la caccia al denaro investito e scomparso si rinnova. Secondo quanto riportato dal report di ActionAid, «dal 2014 a oggi, l’Italia ha stanziato per il controllo dei confini tunisini oltre 47milioni di euro, di questi dal 2019 sono stati 19 i milioni provenienti dal Fondo premialità per le politiche di rimpatrio».
Un fondo dal nome esplicativo, si tratta infatti di uno strumento che “premia” quei paesi che più si impegnano nelle operazioni di rimpatrio. Neanche a dirlo, la Tunisia è il principale beneficiario: da tempo, la maggior parte dei voli charter che partono dall’Italia con migranti da ricondurre nel proprio paese d’origine atterra nel paese nord africano. Nonostante quel che accade in quello stato e i report che dichiarano tutt’altro, il nostro paese considera la Tunisia “paese sicuro”.
Continuando ad approfondire i due report, si scopre che, complessivamente, le risorse destinate alla Tunisia «ammontano a 24 milioni, di cui 19 destinati al controllo delle frontiere e al rafforzamento degli strumenti di controllo e repressione delle forze di sicurezza tunisine». E in cosa vengano spesi questi fondi è chiaro: «oltre la manutenzione per i 6 pattugliatori P350 donati dall’Italia alla Tunisia nel 2014 e ubicati nei porti delle città costiere di Zarzis, Sfax, Sousse, Bizerte e Rades, la Tunisia ha chiesto cinque minibus per il trasporto del personale, 25 pick-up 4×4, cinque veicoli specializzati per il trasporto di detenuti, 20 binocoli e 20 rilevatori di presenza umana».
Il problema sono le ong
E mentre si continua a rafforzare le frontiere e a blindare quel nord del mondo che l’ultimo Dossier statistico immigrazione ha definito come la “più grande comunità recintata del pianeta” e mentre Piantedosi e Salvini continuano a rivendicare il blocco degli sbarchi alle navi delle ong che, nel momento in cui scriviamo, hanno a bordo rispettivamente 268 persone, accade che nel crotonese arrivino in meno di 24 ore quasi mille persone, 650 con la nave italiana Diciotti.
Perché, per quanto si voglia far passare l’idea che gli sbarchi avvengano in maniera massiccia attraverso le navi umanitarie delle organizzazioni non governative c’è un dato di fatto: delle 80mila persone arrivate via mare, 11mila si trovavano su quest’ultime, le altre sono approdate sulle nostre coste in maniera autonoma, attraverso la guardia costiera italiana o mercantili che hanno prestato soccorso.