Usa il termine “mobilità climatica” un nuovo report, risultato di una collaborazione tra l’Africa Climate Mobility Initiative, il Mixed Migration Centre e un consorzio di centri di studio e formazione. Un termine destinato ad essere utilizzato molto spesso in futuro. E che ha a che fare con le conseguenze geografiche, demografiche e sociali “imposte” dal cambiamento climatico. Cambiamenti improvvisi o a insorgenza lenta.
Adattarsi ad un pianeta dal clima sempre più caldo non sarà facile e richiede una serie di sforzi – che hanno a che fare con la ricerca, la politica, la pianificazione – per mettere in atto e finalmente attuare un’azione collettiva per ridurre i gas serra come previsto dall’Accordo di Parigi.
A dire il vero, i progressi fatti finora non sono granché. Per l’Africa – e già sta avvenendo – questo vuol dire che milioni di persone potrebbero essere sradicate dai loro territori o, addirittura, restarne intrappolate. Due sono le reazioni principali legate alle variazioni climatiche degli ultimi anni: lo spostamento di milioni di persone verso aree più sicure e dove ancora è possibile generare reddito – pensiamo solo al fenomeno di innalzamento dei mari, che sta interessando moltissime aree costiere africane e molte delle metropoli che affacciano sul mare – e la riduzione di crescita dell’economia, sia quella familiare, sia quella legata al Pil dei singoli paesi.
Secondo quanto sottolinea uno dei principali autori di African Shifts (titolo del report a cui facciamo riferimento), “le ondate di caldo dovute al cambiamento climatico causato dall’uomo hanno già ridotto la crescita economica globale fino a 29,3 trilioni di dollari tra il 1992 e il 2013”. Ad essere particolarmente colpito è stato il prodotto interno lordo dell’Africa.
Secondo questa stima il Pil pro capite per il periodo 1991-2010 in Africa è stato in media del 13,6% inferiore a quanto avrebbe potuto essere se il cambiamento climatico non si fosse verificato. Cosa avverrà nel continente africano se le cose continueranno ad andare di questo passo?
La risposta non è difficile: la minaccia all’agricoltura, alla tenuta delle coste (centro nevralgico della blue economy), l’innalzamento della temperatura marina con conseguente variazione dell’habitat, determineranno abbassamento della produttività in ogni settore – e magari la chiusura di imprese estere – con conseguente aumento dell’emergenza alimentare, delle disuguaglianze e, come si è detto molte volte, della mobilità forzata.
Migrazioni interne
Ma vediamo più nello specifico cosa mette in luce il rapporto. La maggior parte delle future migrazioni e sfollamenti forzati dal clima in Africa avverranno all’interno dei paesi. Tendenza che in realtà da sempre riflette il movimento migratorio africano, rivolto alle aree limitrofe o confinanti, cosa estremamente lontana dalla retorica europea sull’emigrazione in massa verso l’Europa.
Il numero di persone che si trasferiranno per cercare protezione e migliori mezzi di sussistenza entro il 2050 aumenterà dall’1,5% della popolazione africana di oggi, fino al 5%. Ciò equivale a circa 113 milioni di persone.
Fino a 2,5 milioni di persone potrebbero lasciare le zone costiere dell’Africa a causa dell’innalzamento del livello del mare e di altri fattori di stress. E ancora: nel Corno d’Africa, gli impatti climatici potrebbero costringere nei prossimi decenni fino al 9% della popolazione – 49 milioni di persone – a trasferirsi. Si prevede, inoltre, che il movimento delle persone attraverso i confini in risposta al cambiamento climatico sarà relativamente ridotto. La mobilità climatica transfrontaliera potrebbe raggiungere un massimo di 1,2 milioni di persone entro il 2050.
In sostanza, una piccola frazione della popolazione complessiva del continente e un piccolo contributo alla probabile migrazione transfrontaliera totale di 11-12 milioni di persone entro il 2050.
Hotspot climatici
Quello che è importante sottolineare è che la “mobilità climatica” rappresenterà l’ultima scelta per gli africani costretti a prenderla. La maggior parte degli africani, infatti, resta attaccata alla propria terra e alle proprie case e non aspira a lasciare le proprie comunità.
E, come emerge dal report, metà degli uomini e il 40% delle donne intervistate hanno espresso speranza e ottimismo per il futuro, nonostante le gravi perturbazioni climatiche. Per molte persone, bisogna dirlo, il trasferimento è troppo costoso. Questo vuol dire che i più vulnerabili e le donne, spesso capo-famiglia senza una figura maschile al proprio fianco, rimangono di solito sul posto.
Anche quando la terra non è più fertile resa improduttiva dalla siccità o quando alluvioni violente hanno distrutto i raccolti. Persone che rimangono ancorate – e in qualche modo prigioniere e bloccate – alla loro terra e che rischiano poi l’evacuazione forzata.
Nel lavoro si parla anche di “hotspot climatici”, città specifiche che cresceranno o si ridurranno a causa della mobilità climatica: terre di confine, pianure interessate da forti piogge e zone costiere interessate, invece, dall’innalzamento dei mari.
Quello che rischia di accadere – e in parte è già in quella fase – è che molte metropoli e capitali (specialmente quelle costiere) che ora stanno registrando una velocissima crescita demografica dovuta alle migliori aspettative di vita e di lavoro – si parla per esempio di Accra, Abidjan, Dakar, Lagos, Luanda, Dar es Saalam -, saranno quelle che cominceranno presto a spopolarsi.
Questo, se il livello dei gas serra continuerà ad aumentare e con esso ciò che ne consegue. Sono riflessioni portate ai negoziati della Cop27 sui cambiamenti climatici in Egitto. E proprio l’Egitto motivi di preoccupazione in questo senso ne ha parecchi, visti i forti rischi per Alessandria e per le città costiere del Delta del Nilo.
Nei prossimi tre decenni queste città e forse molte altre rischiano di essere sommerse e le popolazioni saranno costrette a migrare verso zone interne. I prossimi otto anni, sottolineano gli esperti, sono cruciali per invertire la rotta e mettere in atto azioni di strategia concreta e alternativa per i prossimi trent’anni.
Strategie necessarie
Il lavoro, che raccoglie le voci e le storie di persone sulla “linea del fronte”, evidenzia alcune necessarie strategie. Tra queste: la pianificazione della mobilità, che vuol dire – appunto – anticipare e pianificare la mobilità climatica. Ciò include il trasferimento permanente e la promozione della coesione sociale nelle comunità colpite.
E poi: prevenire la tendenza a restare fermi in un luogo, promuovere la crescita economica, ma anche la protezione delle persone in movimento e impegni finanziari per affrontare la mobilità climatica. Cosa importante è quella di informare le persone sui rischi climatici, una sorta di “alfabetizzazione sul cambiamento climatico”.
Ovvio che tutti i discorsi e le azioni sullo sviluppo dovrebbero guardare ad un rapporto positivo, sostenibile e amorevole con la natura, ridurre l’impatto ambientale ed essere in grado di investire su città resilienti ma anche più connesse con le aree rurali e le loro economie.