La pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (Inn) rappresenta un fenomeno poco dibattuto dai grandi media. Eppure, costa ben 11,5 miliardi di dollari l’anno solo all’Africa, con 100mila tonnellate di pesce che finisce in traffici clandestini. Sono le stime del nuovo rapporto firmato da Financial Transparency Coalition (Ftc). Un business incredibile, che si piazza al terzo posto tra quelli illeciti più redditizi, dopo il legname e l’estrazione mineraria.
Questo significa che il 23% delle perdite ricade sulle casse africane – a risentirne, soprattutto l’Africa occidentale, che è diventata ormai, suo malgrado, uno dei massimi epicentri a livello globale di questo fenomeno: quasi il 40% delle navi che operano illegalmente si muovono in questo territorio, cosa che ha pregiudicato, secondo le stime della Coalizione dell’Unione Europea contro la pesca illegale, circa 300mila posti di lavoro.
Considerata spesso dal punto di vista etico o ambientale, recenti studi hanno evidenziato un nuovo aspetto critico della pesca illegale: il dramma economico che rappresenta. Costituisce, secondo i dati riportati, il 20% del pescato globale, con un valore che ammonta tra i 10 e i 23,5 miliardi di dollari l’anno e una perdita, per il commercio legale, di ben circa 50 miliardi di dollari.
Un po’ di contesto
Secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, il 90% degli stock ittici globali è ormai sovrasfruttato o vicino all’esaurimento e la pesca Inn contribuisce in modo determinante a questo fenomeno.
Anche per questo, l’Unione Europea impone controlli parecchio rigidi sulla provenienza del pescato e identifica una serie di “paesi terzi non cooperanti” che, se desiderano continuare a esportare il proprio pesce nei paesi Ue, sono obbligati a rivedere e modificare le proprie norme, allineandosi in modo ritenuto adeguato alla lotta contro la pesca illegale.
Se questo non accade, ricevono un “cartellino rosso”. In questo caso, non solo il paese in questione non può più esportare i propri prodotti, ma è anche vietato, alle navi europee, di pescare nelle sue acque.
Uno dei “trucchi” più usati dalle aziende, a quel punto, è di cambiare bandiera, esibendone, grazie a vari sotterfugi, una africana anziché europea. Ciò permette loro sia di arginare i rigidi controlli imposti, sia di evitare le procedure di regolamentazione previste per le navi straniere in acque locali.
Un report condotto dalla Ong Oceana ha rilevato almeno 41 navi europee che usano bandiere di paesi extra-Ue per arginare i divieti. La maggior parte sono navi spagnole.
L’Amministrazione nazionale atmosferica e oceanica (Noaa) degli Usa ha inoltre finanziato, insieme alla Catena Foundation, uno studio apparso su Science Advances, dove si dà testimonianza di un altro modus operandi per nascondere l’illeceità delle operazioni. È stata cioè documentata la tendenza a disattivare i dispositivi di localizzazione in alcuni momenti del lavoro. Delle navi analizzate, dotate di dispositivi di identificazione automatica (Ais) a bordo, almeno il 40% ha attuato disconnessioni sospette e ingiustificate, per un totale del 6% dell’attività che quindi passa senza lasciare traccia.
C’è un dato in particolare su cui sembrano tutti d’accordo: la maggior parte delle operazioni di pesca illegale è imputabile da aziende cinesi. Lo sono otto delle dieci principali coinvolte. A giocare un ruolo chiave in queste dinamiche, a livello globale, è anche la Spagna.
La situazione in Africa
I danni per il continente africano si diramano su più livelli. Solo la costa occidentale detiene il tasso più alto al mondo di prodotti ittici ottenuti illegalmente, circa il 37% del totale. Come già sottolineato, al danno ambientale si accompagna una notevole perdita economica. Per molti paesi di quell’area, la pesca rappresenta da sempre uno dei principali fattori di sostentamento. Mentre i mari si svuotano sempre di più, ciò che vi rimane viene saccheggiato dalla pesca illegale.
È il caso del Senegal, un paese con oltre 700 km di costa e che produce mediamente, ogni anno, circa 570mila tonnellate di pescato. Negli ultimi anni, tuttavia, ha visto la sua produzione diminuire progressivamente (nell’Africa occidentale si è registrato un calo dell’8,7% nel 2018 rispetto al 2017), anche a causa delle navi straniere che disattivano la localizzazione in prossimità delle coste, per pescare al di fuori della loro area di giurisdizione, invadendo quella dei pescatori locali.
Ma nonostante il governo abbia dichiarato la lotta alla pesca illegale una sua priorità, nel 2020 Greenpeace ha reso noto che il ministero della pesca ha rilasciato delle licenze ad una flotta di navi cinesi, che solo l’anno precedente era stata coinvolta in casi di Inn.
Si confronta con lo stesso problema anche il Ghana, dove addirittura il 90% della flotta di reti a strascico è in mano a cinesi, con perdite che toccano i 50 milioni di dollari l’anno.
Una percentuale minore, ma comunque significativa, è quella che interessa la Sierra Leone, dove la pesca rappresenta il 12% delle risorse economiche del paese, ma che vede comunque il 40% della propria flotta in mano ad aziende cinesi (e sempre la Cina, nel 2021, ha firmato un accordo con il paese per prendere in carico centinaia di ettari della foresta pluviale costiera e costruirvi un porto commerciale).
Problemi di sicurezza
Un’ulteriore criticità riguarda la sicurezza. Un report di FISH Safety Foundation e finanziato da The Pew Charitable Trusts, ha sottolineato come ogni anno muoiano circa 100mila persone coinvolte nella pesca illegale, senza contare i gravi infortuni, gli abusi e il lavoro minorile.
In Africa, nello specifico, è ancora peggio: su 100mila pescatori, 1.000 perdono ogni anno la vita in mare: un media che è 12 volte superiore a quella globale stimata dalla Food and Agriculture Organization (Fao) delle Nazioni Unite.