Sudan: verso una nuova transizione democratica - Nigrizia
Politica e Società Sudan
L’intesa tra militari e civili è un passo importante ma sul tavolo restano i nodi più spinosi
Sudan: verso una nuova transizione democratica
Una svolta attesa da oltre un anno che potrebbe aprire la strada a un nuovo percorso che vedrebbe i militari cedere il potere politico. Un primo accordo siglato il 5 dicembre accolto tra scetticismo e speranza
08 Dicembre 2022
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 6 minuti
Il capo della giunta militare sudanese, generale Abdel Fattah al-Burhan (Credit: SUNA)

Lunedì 5 dicembre al palazzo presidenziale di Khartoum i militari ora al potere in Sudan e una cinquantina di leader di partiti politici, di associazioni professionali e di organizzazioni della società civile – molti riuniti nel cartello delle Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc) – hanno firmato un accordo politico preliminare che costituisce il primo passo verso l’uscita dalla crisi seguita al colpo di stato del 25 ottobre 2021.

Il documento finale, auspicano i firmatari, sarà pronto nell’arco di un mese, quando sarà trovato il consenso su diversi punti critici attorno ai quali per ora continua un serrato confronto.

L’accordo rimette in moto la transizione democratica, iniziata nell’aprile del 2019, quando la mobilitazione popolare determinò la caduta del presidente Omar El-Bashir e l’implosione del regime islamista del Partito del congresso nazionale (National Congress Party – Ncp), e dovrebbe portare all’insediamento di un governo civile.

L’uso del condizionale è d’obbligo, viste le precedenti esperienze di patti rimasti sulla carta o sconfessati nell’arco di pochi mesi. Ma l’incertezza deriva soprattutto dal fatto che il documento manca dell’approvazione di molte forze attive sulla scena politica del paese. Significativa del clima è la marcia verso il palazzo presidenziale di migliaia di persone, chiamate alla mobilitazione dai comitati di resistenza popolare durante la cerimonia della firma.

Da sempre i comitati di resistenza si sono detti contrari a qualsiasi accordo con la giunta militare, che, a loro parere, legittimerebbe il colpo di stato che ha bloccato per oltre un anno il processo di transizione verso la democrazia e ha aggravato la situazione economica del paese.

Posizioni simili hanno anche alcuni partiti, come il partito comunista, ancora attivo e autorevole in Sudan, e diversi movimenti della società civile, parecchi usciti dalle Ffc per formare un nuovo raggruppamento, le Ffc -Db (Forces for Freedom and Change – Democratic Block).

Contrari all’accordo anche i movimenti armati darfuriani che fanno parte della giunta militare ora al potere, in posizioni di rilievo. Gibril Ibrahim, presidente del Jem (Justice and Equality Movement) è ora ministro dell’economia; Minni Minawi, capo del Slm-Mm (Sudan Liberation Movement – Minni Minawi) è invece governatore del Darfur.

I due hanno rilasciato dure dichiarazioni giudicando il documento non inclusivo. Minni Minawi si è spinto fino a dire che potrebbe portare all’implosione del paese. Il problema è che la loro posizione sarebbe molto ridimensionata in un governo civile in cui le forze armate dovrebbero essere unificate e avere un ruolo nazionale.

L’accordo quadro prevede infatti l’insediamento di autorità civili a tutti i livelli e un Consiglio per la sicurezza nazionale e per la difesa, presieduto dal primo ministro. Si basa su un importante assunto: “Il Sudan è uno stato democratico, federale, parlamentare, con una leadership civile, in cui la sovranità appartiene al popolo che è la fonte del potere, basato sul ruolo della legge e il trasferimento pacifico del potere per mezzo di elezioni libere e credibili, e dove le risorse e le ricchezze sono divise in modo equo”.

Dell’esercito, che ha fatto il bello e il cattivo tempo lungo tutta la storia del paese, si enfatizza il fatto che dovrà essere “uno, nazionale e professionale” con il dovere di “proteggere i confini nazionali e difendere il governo democratico e civile”.

Un mese per appianare i contrasti

Affermazioni programmatiche importanti che andranno però verificate alla luce degli accordi su alcuni punti di grande importanza per il futuro del paese, su cui i firmatari continuano ad avere posizioni distanti.

Uno riguarda proprio la riforma dell’esercito – in cui dovrebbero confluire anche le Forze di intervento rapido (Rsf) comandate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, ora vicepresidente della giunta militare – e degli apparati di sicurezza. Una riforma già prevista nella precedente costituzione provvisoria e mai realizzata.

Un altro punto dolente ancora in discussione è la giustizia e il processo di verifica delle responsabilità nella repressione violenta della mobilitazione popolare dal 2019 ad oggi. I morti sono stimati in diverse centinaia: 120, e 7mila feriti, dopo il golpe militare del 2021. Ci si domanda fino a che punto e fino a che livello della catena di comando, i vertici militari saranno disponibili a risponderne. Per ora hanno chiesto, in modo più o meno velato, l’impunità che le altre forze firmatarie sono molto restie a concedere.

Altro punto controverso è il lavoro di smantellamento del regime dell’Ncp e del deposto presidente Omar El-Bashir, portato avanti da una commissione nominata dal governo dell’ex primo ministo Abdalla Hamdock. La commissione aveva rimosso molti funzionari governativi conniventi e aveva confiscato i beni, molti frutto di corruzione, che ne avevano rafforzato il potere.

Dopo il colpo di stato del 25 ottobre 2021 tutti questi provvedimenti erano stati revocati e i membri della commissione erano stati imprigionati. Ci si chiede come e a quali condizioni il lavoro potrà riprendere.

Alla domanda non sarà facile rispondere anche alla luce delle dichiarazioni del capo della giunta militare, generale Abdel Fattah al-Burhan, che al momento della firma degli accordi ha difeso il colpo di stato, giudicato un grave errore dal suo vice, Hemetti, perché ha permesso il rientro nello spazio politico di forze in un primo momento escluse. Tra queste, diversi movimenti islamisti.

I firmatari dovranno trovare un accordo anche sulla revisione degli accordi di pace di Juba con i movimenti armati presenti e in parte ancora attivi nel paese, e infine dovranno discutere della situazione del Sudan orientale, dove il diffuso malcontento è stato utilizzato dalla giunta militare per giustificare il colpo di stato.

Secondo l’accordo quadro firmato il 5 dicembre, tutte queste delicate questioni saranno discusse nell’arco di un mese. Dunque in gennaio dovrebbe essere siglato il documento definitivo. Poi le “forze della rivoluzione” sceglieranno il primo ministro che formerà il governo e metterà in moto il processo per l’insediamento delle altre istituzioni del paese. Il periodo transitorio durerà due anni. Poi si indirranno le elezioni.

I militari faranno un passo indietro ma, a giudicare dalle dichiarazioni di al-Burhan, non rinunceranno a influenzare il processo politico: «L’uscita definitiva dei militari dal processo politico deve essere accompagnata dall’uscita dei partiti politici». Prevede dunque un governo di tecnici, ma a quanto pare, non c’é nessun consenso in proposito.

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