Il 2022, appena lasciato alle spalle, pare aver confermato i dubbi degli zeloti del credo democratico occidentale: la democrazia in Africa è un fiore appassito.
Un’affluenza poco sopra l’11% alle “legislative” tunisine è la più bassa mai registrata in una elezione parlamentare nella storia contemporanea. Un risultato che ha scatenato i commenti impazienti di chi vede un forte arretramento del regime democratico nel continente.
È la stagione della disaffezione. Del naufragio democratico. Ma Tunisi è solo l’ultimo esempio. Anche prima delle urne vuote nordafricane, la rivista The Africa Report aveva parlato di «morte della democrazia» in Africa.
Perché se è vero che il voto non equivale alla democrazia, lo svolgimento di elezioni libere e corrette è riconosciuto come un segno distintivo di responsabilità e una componente fondamentale di un regime democratico.
In base alle ultime rilevazioni di Afrobarometer, meno della metà degli africani (44%) afferma che le elezioni sono uno strumento ben funzionante per consentire agli elettori di rimuovere i leader che non fanno ciò che i cittadini chiedono loro.
Nel 2023 uno dei paesi che andrà alle urne per le presidenziali sarà il Gabon. Secondo le ricerche di Afrobarometer, solo il 14% dei gabonesi ritiene che le elezioni garantiscano la presenza in parlamento di rappresentanti che riflettono le opinioni degli elettori. Un dato disarmante. Ma come non condividere tale sfiducia, visto che in quel paese due generazioni della famiglia Bongo occupano il potere dal 1967?
E come negare che l’autocrate più longevo del mondo sia il presidente della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang? Preoccupazioni emerse anche al Forum Usa-Africa di dicembre. A margine del vertice, il presidente Biden ha incontrato i leader dei paesi che andranno al voto nel 2023 e ha suonato il campanello d’allarme.
Detto questo, non possiamo, tuttavia, rimanere vittime dei soliti cortocircuiti. Osservando, senza essere intossicati da giudizi consuetudinari, ciò che è successo in questi ultimi anni, accanto a regni infiniti, a ripetuti golpe e al fiorire di democrature si è pure assistito a un numero crescente di paesi africani che stanno vivendo una fase di trasferimento di potere. È successo in Malawi. Si è ripetuto in Zambia. Si è replicato in Kenya.
Quest’anno, sono sette i paesi chiamati alle elezioni presidenziali. Inutile nasconderci, tuttavia, che le attenzioni maggiori saranno rivolte a due di questi: a febbraio si voterà in Nigeria – il paese più popoloso e prima economia continentale –; a dicembre si apriranno le urne nella Repubblica democratica del Congo, paese al centro di mille interessi economici e politici.
L’inciampo di una previsione è lì, dietro la prima aspettativa. Stiamo parlando di due paesi malconci, in preda a una acuta fragilità, con un mix di instabilità politica e autoritarismo che rischia di mandarli in frantumi.
È indiscutibile, tuttavia, che se la prova del voto dovesse avvenire senza sconvolgimenti traumatici o con militari alle porte, o con derive putiniane, il segnale che arriverebbe al continente sarebbe forte e chiaro. Segnale che influenzerebbe positivamente anche le regioni circostanti. Segnale che aiuterebbe tutti a svecchiare lo sguardo su ciò che accade in Africa.
Postilla. Su un ponte di Tunisi un writer ha lasciato scritto: Fight for bread not for freedom. È tanto più vero in Africa subsahariana.
Afrobarometer
Fondato in Sudafrica e con sede in Ghana è una rete panafricana e apartitica che fornisce dati sullo stato di salute della democrazia, del governo e della qualità della vita in 34 paesi.