Articolo pubblicato il 4 febbraio 2023 da Agenzia Fides
«Ho in cuor solo il bene della Chiesa. E per la conversione dei miei cari africani darei cento vite, se potessi». Così diceva di sé Daniele Comboni (1831-1881), rivelando anche con le espressioni forti del suo parlare il temperamento vulcanico e irruente.
Per la sua passione missionaria, lui raccontava di aver dovuto «Combattere con i potentati, con i turchi, con gli atei, i frammassoni, i barbari, gli elementi, i preti… ma tutta la nostra fiducia è in colui che sceglie i mezzi più deboli per fare le sue opere».
Papa Francesco ha richiamato la memoria del Santo missionario nella cattedrale di Santa Teresa a Juba, dove ha incontrato i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, le consacrate e i seminaristi, nel secondo giorno del suo viaggio apostolico in Sud Sudan.
«Possiamo ricordare» ha detto il Papa a chiusura del suo discorso «San Daniele Comboni, che con i suoi fratelli missionari ha compiuto in questa terra una grande opera di evangelizzazione: egli diceva che il missionario dev’essere disposto a tutto per Cristo e per il Vangelo, e che c’è bisogno di anime ardite e generose che sappiano patire e morire per l’Africa».
Daniele Comboni, uno dei più grandi missionari della storia recente, beatificato nel 1996 e proclamato Santo da Giovanni Paolo II il 5 ottobre 2003, veniva da una famiglia contadina. Nato a Limone sul Garda, unico sopravvissuto di otto figli, era entrato nel Seminario di Verona, iniziando poi a frequentare l’Istituto missionario fondato da don Nicola Mazza.
Il sacerdote, con l’appoggio della Congregazione di Propaganda Fide, aveva portato in Italia alcuni giovani africani per formarli e poi incoraggiarli a compiere spedizioni missionarie nelle regioni dell’Africa centrale.
Ordinato sacerdote il 31 dicembre 1854, nel mese della proclamazione del Dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, il 26enne Daniele era il più giovane dei cinque sacerdoti che don Mazza, 3 anni dopo, invia in missione.
«Ricordatevi» dice a loro prima della partenza «che l’opera alla quale vi consacrate è opera Sua. Lavorate solamente per Lui, amatevi e aiutatevi scambievolmente, siate uniti in tutto, e la gloria di Dio, la sola gloria di Dio promuovete e intendete sempre, che tutto il resto è vanità».
Dopo il lungo viaggio, che comprende anche un pellegrinaggio in Terra Santa, i giovani missionari arrivano a Khartoum e poi in barca sul Nilo Bianco, si spingono più a sud, per 1500 chilometri, fino a Santa Croce, ultima stazione missionaria davanti alla foresta impenetrabile.
Ma in poco tempo tre dei cinque muoiono per gli stenti e le febbri. La spedizione missionaria finisce in un fallimento. Propaganda Fide affida le terre al Vicariato apostolico di Alessandria d’Egitto.
Al suo ritorno in Italia, arrivano altre tribolazioni. Comboni, dopo aver pregato in San Pietro, elabora un “piano missionario” che contempla tra le altre cose la creazione di primi avamposti missionari lungo le coste e il coinvolgimento di missionarie donne per annunciare il Vangelo tra le genti che nell’Africa subsahariana non conoscono Gesù.
Ma intanto, il vescovo di Verona, dopo la morte di don Mazza, proibisce all’Istituto missionario da lui fondato di accogliere nuovi seminaristi.
Nel montante clima anti-clericale del nascente Stato italiano, Comboni riesce a dar vita al nuovo Istituto per le Missioni della Nigrizia grazie all’appoggio di Pio IX e del Cardinale Barnabò, Prefetto di Propaganda Fide. L’Istituto nasce a Verona nel 1867.
E nel tempo che segue, Comboni gira l’Europa per cercare aiuti materiali e spirituali per la nuova opera. Frequenta conventi di clausura e cene in case aristocratiche. Affida l’istituto a San Giuseppe. Più tardi ringrazierà nei suoi scritti il padre putativo di Gesù, «che non mi ha mai permesso di fare bancarotta e non mi ha mai negato nessuna grazia temporale».
Intorno all’opera di Comboni (che nel 1872 fonda a Verona anche l’Istituto femminile delle Pie Madri della Nigrizia) si scatenano presto ostilità, maldicenze e attacchi clericali e anticlericali. Le sue intuizioni missionarie, tra l’altro, incrociano pericolosamente gli interessi che in Africa si muovono da secoli lungo le rotte dello schiavismo.
Nelle lettere agli amici, Comboni mostra consapevolezza di «Raggiri, inganni, illusioni, menzogne, suggestioni colpevoli» che gli girano intorno. Eppure Propaganda Fide sostiene la sua incondizionata dedizione per la missione.
Nel 1877 viene ordinato Vescovo, e nel dicembre dello stesso anno inizia con un folto gruppo di missionarie una spedizione che dopo quasi un anno di viaggio lo porterà a Khartoum. Saranno per lui gli ultimi quattro anni di lavoro intenso, tempo in cui avrà la gioia di visitare e veder fiorire le missioni a sud di Khartoum: Delen, Gondòkoro, Gebel, Nuba, Santa Croce, El Obeid…
Anche in quel tempo, mentre le malattie fisiche cominciano a intaccare inesorabilmente la sua salute, gli pesano soprattutto ostilità e malignità che gli arrivano addosso da ambienti ecclesiastici. In una lettera a un sacerdote, scrive che il clima estremo di El Obeid gli rende difficile dormire e mangiare.
E racconta delle «pillole amare» che ha dovuto trangugiare, «che è un miracolo se riesco a sopravvivere. Io lavoro per la gloria di Dio e per le povere anime meglio che posso, e vado avanti e non mi curo d’altro, certo che tutte le croci che devo portare sono per volontà di Dio, e quindi mi saranno sempre più care».
Nel luglio 1881, i tremendi temporali e le febbri incrociate nel viaggio di ritorno da El Obeid verso Khartoum minano per sempre la sua salute. Negli ultimi mesi di vita vede morire intorno a se per le febbri maligne i suoi amici e collaboratori più cari.
Intanto crescono le preoccupazioni per la situazione politica, nel Sudan dove stanno incubando conflitti e drammatiche rivoluzioni come la rivolta anti-britannica guidata dal capo islamico Mohammed Ahmed el Mahdi.
In una lettera al Prefetto di Propaganda Fide, Comboni scrive che «le opere del Signore nacquero e crebbero sempre così», e gli racconta la storia «del nostro fratello laico Paolo Scandi di Roma, che aiutava la missione come ferraiolo. Era poco più che un ragazzo. È morto dicendo: ‘sono contento’. Dolce è quel ‘fiat’ che tutto dice, tutto comprende, tutto abbraccia».
Poco tempo dopo, anche Comboni finisce i suoi giorni a cinquant’anni di età, dopo aver chiamato i suoi intorno al suo capezzale di moribondo per ringraziarli e chiedere perdono. Prima di perdere i coscienza – raccontò il sacerdote che lo assisteva nella fase finale della malattia «volle abbracciare la croce… si è addormentato placido, come un bambino».