Ultras Al Ahly, una tifoseria smembrata - Nigrizia
Egitto
I sostenitori del club egiziano da 11 anni vittime della repressione di al-Sisi
Ultras Al Ahly, una tifoseria smembrata
Dal Mondiale per Club in Marocco i tifosi della squadra del Cairo raccontano 11 anni di repressione in Egitto, dove sono considerati terroristi per il ruolo giocato nella rivoluzione del 2011. E non dimenticano i compagni morti nel massacro di Port Said
14 Febbraio 2023
Articolo di Alex Čizmić (dal Marocco)
Tempo di lettura 4 minuti

“Never forget” (Non dimenticare). È questo il messaggio che è comparso in occasione di tutte le partite disputate dalla squadra dell’Al Ahly al Mondiale per Club che si è tenuto in Marocco dall’1 all’11 febbraio.

In particolare, i tifosi del club egiziano hanno esposto questo striscione con orgoglio e commozione nel corso della gara inaugurale contro i neozelandesi dell’Auckland City. Il destino ha infatti voluto che il debutto dei dieci volte campioni d’Africa coincidesse con l’undicesimo anniversario della tragedia di Port Said, in cui morirono settantadue sostenitori dell’Al Ahly.

Intrappolati all’uscita dello stadio dopo la fine della partita, con la complicità delle forze dell’ordine rimaste immobili di fronte alla strage imminente, morirono sotto i colpi inferti loro dai tifosi dell’Al Masry con coltelli, bastoni e aste di legno.

Quella fu una punizione inferta agli Ultras Ahlawy, il gruppo organizzato fondato nel 2007 che supporta il club cairota, per aver giocato un ruolo fondamentale nella rivoluzione del 2011 che portò alla caduta del regime dittatoriale di Hosni Mubarak.

Da quel 1 febbraio 2012 la vita dei membri degli Ultras Ahlawy non è più la stessa. Il governo egiziano considera i gruppi ultras delle organizzazioni terroristiche e sin dall’ascesa al potere di Abdel Fattah al-Sisi cerca in tutti i modi di silenziarli. Nel 2018 gli Ultras Ahlawy si sono visti costretti a interrompere le proprie attività a tempo indefinito dopo l’arresto di alcuni membri del gruppo.

Attualmente, solo cinquemila tifosi per squadra possono accedere alle partite del campionato locale. I biglietti sono acquistabili solo digitalmente attraverso una piattaforma indirettamente controllata dal governo. Va da sé che la stragrande maggioranza degli ultras ha deciso di non aderire a questo sistema.

Le attività degli Ultras Ahlawy proseguono in qualche modo all’estero perché, come ha affermato un ultrà nel documentario Ultras of Egypt pubblicato nel 2018, è possibile uccidere delle persone ma non i loro ideali.

È così che lo spirito degli Ultras Ahlawy continua a esistere ogni qualvolta l’Al Ahly gioca fuori dai confini egiziani. Competizioni di respiro internazionale come il Mondiale per Club sono per gli ultras l’occasione per poter sfuggire al controllo delle autorità egiziane, rinascere dalle ceneri della repressione e, come recita uno dei loro striscioni, conservare la fiamma delle loro idee.

Alcuni membri si sono stabiliti all’estero e non hanno problemi nel raggiungere il paese di destinazione, se non le solite lungaggini burocratiche nel caso in cui possiedano solo il passaporto egiziano. Coloro che vivono in Egitto, invece, devono cautelarsi. Tendono a viaggiare individualmente o in gruppi molto ristretti e mantengono un profilo basso finché non si riuniscono di fronte agli stadi.

In realtà, non c’è una vera e propria pianificazione. «Ci incontriamo allo stadio, in curva, e iniziamo a cantare. È tutto molto spontaneo perché siamo accomunati dallo stesso amore per l’Al Ahly», ha affermato uno dei fondatori che preferisce rimanere anonimo. «Alcuni membri indossano la sciarpa o la maglietta del gruppo o portano striscioni legati ad esso perché sentono la mancanza del gruppo e all’estero si sentono al sicuro di poterla esprimere, ma il gruppo effettivamente non c’è più».

Anche le coreografie, come quella mostrata nella partita inaugurale, sono un’idea di pochi membri che poi si rivolgono al resto dei tifosi per chiedere un supporto economico. L’attenzione a non dare troppo nell’occhio è massima. Motivo per cui si rifiutano di parlare pubblicamente con la stampa e molti di loro si coprono il volto con sciarpe o mascherine chirurgiche di colore nero.

«Non siamo vivi, né morti», ha proseguito. «È come se le parti del nostro corpo fossero separate ma continuassero a sopravvivere singolarmente. È così che ci sentiamo. Andiamo avanti sperando che un giorno la situazione nel nostro paese possa cambiare e il gruppo possa riprendere il proprio corso».

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