Un rapporto diffuso nei giorni scorsi dall’Oakland Insitute (centro di ricerca statunitense per la difesa dei diritti dei popoli nativi), riporta l’attenzione sull’impatto degli interventi, cosiddetti “di sviluppo”, sulla vita delle popolazioni indigene, in questo caso quelle della bassa valle del fiume Omo, in Etiopia.
Il titolo del documento non potrebbe essere più chiaro: Dam and sugar plantations yield starvation and death in Ethiopia’s Lower Omo Valley (La diga e le piantagioni di canna da zucchero producono fame e morte nella bassa valle dell’Omo in Etiopia). Vi si parla in particolare delle condizioni in cui vivono i kwegu, i bodi, i mursi e altri gruppi minoritari, dopo gli interventi sul corso del fiume per la produzione di energia elettrica e canna da zucchero.
La diga citata nell’articolo è la Gibe III, costruita dalla ditta italiana Salini Impregilo, inaugurata nel 2016, con anni di ritardo sul programma, dopo numerose battute d’arresto e tra le polemiche, proprio per la previsione di un devastante impatto socio-ambientale.
L’intervento si trova per di più in una zona limitrofa a quelle in cui si sono trovati importanti reperti paleontologici, fondamentali per la ricostruzione della storia dell’evoluzione umana, con il pericolo che anche quei siti, riconosciuti come patrimonio dell’umanità dall’Unesco, potessero averne un impatto negativo.
La diga è parte di un intero sistema di sbarramenti e impianti idroelettrici sul corso del fiume Omo – il più importante in Etiopia al di fuori del bacino del Nilo – che hanno consentito un aumento notevole della produzione di energia elettrica in un paese in buona parte ancora non elettrificato.
Gli invasi creati dalle dighe hanno permesso inoltre il fiorire di piantagioni estensive, in particolare per la produzione di canna da zucchero. Ne hanno tratto vantaggio una parte della popolazione, in particolare quella urbana, raggiunta dalla rete elettrica, e il Pil del paese che vende l’energia anche nella regione, oltre ad investitori che producono per l’esportazione.
Alla popolazione locale, cui erano stati promessi nuovi insediamenti dotati dei servizi di base e posti di lavoro, non è arrivato nulla.
Allarmi inascoltati
Lo diceva già un’altra ricerca in loco dell’Oakland Institute, How they tricked us: living with the Gibe III dam and sugarcane plantations in southwest Ethiopia (Come ci hanno ingannato: vivere con la diga Gibe III e le piantagioni di canna da zucchero nel sud-ovest dell’Etiopia), pubblicata nel giugno del 2019.
Già allora i ricercatori avevano raccolto testimonianze preoccupanti.
Le popolazioni locali erano state spinte ad abbandonare il loro stile di vita basato sull’allevamento brado per abbracciare l’agricoltura, di pura sussistenza per altro. Ma non avevano ricevuto appezzamenti di terreno sufficientemente fertili e ampi da sfamare le proprie famiglie.
Per di più gli sbarramenti sul corso del fiume avevano fermato le alluvioni stagionali che permettevano di coltivare sulle sue rive in terreni fertilizzati dall’humus deposto in abbondanza durante le esondazioni, con tecniche tradizionali ma in modo efficace, tanto da produrre il necessario per il fabbisogno annuale.
Scuole, dispensari, pozzi, promessi dal governo in cambio del trasferimento in villaggi lontani dal fiume e dai loro insediamenti tradizionali, si erano materializzati raramente e, nel migliore dei casi, erano gravemente insufficienti a soddisfare i bisogni della popolazione.
Il posti di lavoro originati dalla costruzione degli impianti e dalla gestione delle piantagioni, pochi rispetto alle aspettative, erano di fatto stati assegnati a persone provenienti da altre zone del paese.
«Senza aiuto il mio popolo sparirà»
Ora, dice la ricerca pubblicata nei giorni scorsi, la situazione si è ulteriormente aggravata nel disinteresse del governo e della comunità internazionale, concentrati nell’affrontare gli enormi problemi politici ed umanitari causati dalla guerra nel Tigray.
Nella conferenza stampa di presentazione, l’8 febbraio scorso a Oakland, in California, Anuradha Mittal, direttrice esecutiva dell’istituto, ha sottolineato la necessità di un intervento immediato, dal momento che malnutrizione grave e vera e propria fame sono diffuse nella zona.
La popolazione, debilitata dalle difficili condizioni di vita, è esposta a malattie potenzialmente mortali, quali varicella, morbillo, malaria, leishmaniosi. Per la contaminazione delle acque dell’Omo e dei suoi tributari a causa del lavoro nelle piantagioni, si sono verificati casi di colera. La situazione sanitaria è aggravata dall’inquinamento con sostanze chimiche, usate nell’agricoltura intensiva.
A causa dell’impatto ambientale degli interventi “di sviluppo”, la popolazione ha perso le sue fonti di sostantemanto tradizionali. Il bestiame non trova pascolo sufficiente e dunque scarseggia, il pesce non vive più nelle acque contaminate, la selvaggina è sparita con la scomparsa del suo habitat, sostituito dalla piantagioni. Anche le erbe spontanee, che contribuivano ad un’alimentazione ricca di vitamine e sali minerali, sono sparite con la distruzione delle aree selvatiche in cui crescevano.
Particolarmente toccanti e lucide le testimonianze raccolte fra la popolazione, che ha raccontato anche abusi gratuiti, quale la distruzione dei magri raccolti per il passaggio di mezzi pesanti, usati nelle piantagioni. Possono essere riassunte nella frase di un anziano: «Per favore, se non arriva nessun aiuto, il mio popolo sparirà dalla valle».
Ma, ha concluso la Mittal, «Al di là dell’aiuto immediato, è essenziale affrontare gli abusi del passato. Dopo anni di promesse mancate e violenze diffuse, ogni sviluppo futuro nella bassa valle dell’Omo dovrà essere basata sul rispetto e la protezione dei diritti delle popolazioni minoritarie locali».
Il rapporto descrive dunque una situazione largamente prevista, ma non per questo meno allarmante. La violazione dei diritti delle popolazioni native è purtroppo molto diffusa, in Africa e non solo.
Si prevede che gli interventi sul corso del fiume Omo avranno un forte impatto negativo anche a sud, oltre il confine etiopico, in Kenya, sul lago Turkana – di cui è affluente -, mettendo a rischio le fonti di sostentamento di almeno 300mila persone, tutte di gruppi che vivono ancora in maggioranza secondo schemi tradizionali. Tra di loro gli el-molo, il gruppo nativo più piccolo e vulnerabile del paese, per cui non sono previsti interventi di sostegno.
Leggendo il rapporto, inoltre, non si può non pensare alla situazione dei maasai della Tanzania, altro paese della regione, che stanno attraversando vicissitudini sostanzialmente non dissimili da quelle dei popoli indigeni della bassa valle dell’Omo.