L’impegno assunto da Salva Kiir e Riak Machar di fronte a papa Francesco nella sua recente visita nel paese, di velocizzare il processo di transizione verso le elezioni politiche, appare quanto mai beffardo.
Dopo l’accordo di pace che pose fine a cinque anni di guerra civile, nel settembre 2018 i contendenti concordarono un periodo triennale di transizione fino al 2021, cui sarebbero seguite elezioni nel febbraio 2023.
Ad agosto 2022, tuttavia, il governo decise di posticipare le elezioni al 2024.
Ironico appare pertanto l’appello rivolto il 22 febbraio scorso da Salva Kiir ai rappresentanti di 2,3 milioni di rifugiati sudsudanesi nei paesi circostanti e sfollati interni, invitandoli a tornare ai propri territori per prepararsi alla competizione elettorale. Territori che, peraltro, in molti casi sono stati occupati da altri.
Ironico appare anche il tema dell’incontro tra il presidente e i leader dei rifugiati: “Perdono, riconciliazione, pace e reinsediamento al fine di creare uno spirito di unità in tutto il Sud Sudan”.
Tensioni e scontri interetnici, peraltro, non fanno che aumentare in varie regioni (in particolare negli stati dell’Alto Nilo, Warrap, Jonglei ed Equatoria Orientale), mentre non si nota ancora alcun passo decisivo verso la promessa completa unificazione delle forze militari.
Le lotte per il potere continuano e il paese, indipendente dal Sudan dal 2011, non ha ancora una sua Costituzione. La Banca mondiale stima che l’82% dei sudsudanesi viva con meno di due dollari al giorno e per loro la sopravvivenza diventa ogni giorno più difficile.
Insomma, in questi ultimi quattro anni poco o nulla è stato fatto per implementare la road map prevista dall’accordo di pace. In compenso molto si sono date da fare le élite politiche e militari per razziare le risorse del paese e riempirsi le tasche.