Il 25 febbraio scorso il Consiglio dell’Unione europea ha sanzionato 11 persone e 7 organizzazioni legate al gruppo paramilitare Wagner, riconducibile direttamente, secondo tutti gli esperti del settore, al presidente russo, Vladimir Putin.
Josep Borrell, alto rappresentante europeo per gli affari internazionali e la politica di sicurezza, ha dichiarato che «le attività del gruppo Wagner sono una minaccia per la gente dei paesi dove operano e per l’Unione europea. Mettono a rischio la pace e la sicurezza internazionale dal momento che operano al di fuori di ogni quadro di riferimento legale».
Nella lista dei sanzionati si trovano anche due compagnie di copertura delle operazioni del gruppo Wagner in Sudan, la Meroe Gold e la M-Invest, e Mikhail Potepkin, direttore della prima con responsabilità anche nelle attività della seconda. Insieme a un’analoga compagnia operante nella Repubblica Centrafricana, sono stati sanzionati per «il loro ruolo nel commercio illegale di oro e diamanti razziati con la forza dai commercianti locali».
Le ricerche sull’operato delle compagnie legate alle operazioni del gruppo Wagner in Sudan sono ormai numerosi. L’ultima, pubblicata lo scorso novembre, è dell’Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP, Progetto di investigazione sulla corruzione e il crimine organizzato) cui lavorano una rete di agenzie giornalistiche e giornalisti indipendenti basati in maggioranza nella Federazione russa, nei paesi dei Balcani e dell’Est europeo. Ne sono fondatori il rumeno Paul Radu, vincitore dell’European Press Award nel 2020, e l’americano Drew Sullivan.
Pagata l’intelligence per servizi di sicurezza
Il lavoro dell’OCCRP ha messo in luce, in particolare, i rapporti tra le due compagnie sanzionate dall’Unione europea e i militari, sia quelli legati al passato regime sia quelli attualmente al potere a Khartoum. In particolare, la M-Invest ha pagato con milioni di dollari compagnie gestite dall’intelligence militare sudanese per servizi di sicurezza e voli su aerei dell’esercito, compresi l’uso di codici di volo, aeroporti e basi militari. La Merowe Gold, legata alla M-Invest, operante per lo sfruttamento e il commercio dell’oro sudanese, ha avuto, invece, un trattamento di favore dal governo che ha rinunciato alla partecipazione agli utili, che generalmente ammontano al 30% per tutte le altre compagnie minerarie. L’accordo sarebbe stato firmato nell’agosto del 2018 dall’allora presidente Omar Hassan El-Bashir. Due mesi dopo sarebbero state concesse alla Merowe Gold altre tre licenze di sfruttamento in aree molto promettenti. In cambio dei mancati guadagni, il regime sudanese avrebbe ricevuto armi.
Traffico d’oro
Un lavoro di giornalismo investigativo della CNN, diffuso alla fine dello scorso luglio, chiarisce il legame tra lo sfruttamento dell’oro sudanese e il proseguimento della guerra in Ucraìna. Titolo del servizio: Russia is plundering gold in Sudan to boost Putin’s war effort in Ukraine (La Russia sta razziando oro in Sudan per sostenere gli sforzi bellici di Putin in Ucraìna). I ricercatori della CNN – con il contributo del Dossier Center, supportato dal dissidente russo Khodorkovsky, in esilio a Londra – avrebbero trovato prove del contrabbando di tonnellate d’oro per mezzo di aerei cargo russi: almeno 16 voli nell’ulimo anno e mezzo.
Il Sudan è il terzo produttore d’oro del continente dopo il Ghana e il Sudafrica. Secondo dati ufficiali, tra il 2011 e il 2020, ne sarebbero state estratte 629 tonnellate. Secondo documenti fatti filtrare ai giornalisti della CNN da funzionari della Banca centrale sudanese, nel solo 2021 i proventi di 37,2 tonnellate d’oro sono sfuggiti al bilancio dello stato. Al prezzo medio di quel periodo, pari a 60 milioni di dollari a tonnellata, si tratterebbe di circa 1,9 miliardi di dollari persi dall’erario del paese.
Secondo altre fonti, che la CNN non ha potuto verificare, il valore perso attraverso vie illegali ogni anno potrebbe essere ben maggiore: 13,8 miliardi di dollari, il 90% circa del valore totale della produzione.
Saccheggio istituzionalizzato
L’inchiesta si è avvalsa di dichiarazioni di persone ben informate sui fatti e di documenti attentamente esaminati da esperti. Su questi è basata la convinzione dei ricercatori che ci sia «un elaborato schema russo per saccheggiare le ricchezze del Sudan allo scopo di fortificare la Russia contro le sempre più severe sanzioni occidentali e sostenere gli sforzi bellici in Ucraìna». In cambio ha fornito sostegno politico e militare a una leadership corrotta e collusa, isolata internazionalmente e sempre più impopolare all’interno, dove continua a reprimere nel sangue le richieste popolari di un governo civile e di una trasformazione democratica. Nel rapporto si legge, infatti, che il governo russo avrebbe sostenuto il colpo di stato militare del 25 ottobre 2021.
La grande vicinanza tra Mosca e Khartoum è testimoniata anche dalla visita del ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov, lo scorso febbraio, durante la sua missione in diversi paesi africani.
Legami post colpo di stato
I legami tra i due paesi, sempre significativi, si sono consolidati dopo il colpo di stato del 1989 che ha imposto in Sudan un governo militare islamista, guidato dal presidente Omar Hassan El-Bashir, deposto dopo trent’anni da una mobilitazione popolare nell’aprile del 2019. Si sono rafforzati ulteriormente con l’ascesa al potere di Putin in Russia. Dati e analisi di esperti portano ad affermare che la Russia è tra i più importanti partner economici e politici del Sudan, mentre è considerato da Mosca come un importante alleato globale in Africa.
Nel corso degli anni sono stati numerosi i segni di una crescente collaborazione sul piano diplomatico e militare. L’influenza russa è stata rilevante in particolare nella crisi in Darfur. Mosca si oppose al dispiegamento della missione di pace dell’Onu nella regione, appoggiando il rifiuto deciso del governo di Khartoum. Si giunse, poi, a un compromesso; una missione ibrida con la partecipazione dell’Unione africana le cui operazioni furono sempre più o meno apertamente ostacolate.
Embargo violato
La Russia fu inoltre accusata da Amnesty international, insieme alla Cina, di violare l’embargo sulle armi imposto dall’Onu. Armi che, secondo il suo rapporto No end to the violence in Darfur, diffuso nel febbraio del 2012, furono usate contro i civili. A riprova, Mosca fu incolpata di aver fornito nel 2005 elicotteri militari per sette milioni di sterline sudanesi di allora. Quegli elicotteri furono fotografati negli aeroporti militari del Darfur da cui decollavano per raid sui villaggi della regione.
Nel 2008, durante il fallito attacco a Khartoum dei miliziani del Jem (Justice and Equality Movement, uno dei movimenti armati darfuriani) rimase uccise un pilota russo alla guida di un aereo militare che fu abbattutto dai ribelli mentre sorvolava la zona delle operazioni.
Secondo il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), autorevole centro studi svedese sui temi della pace, negli anni più caldi della crisi darfuriana, la Russia forniva al regime di Khartoum l’87% delle armi; la Cina si fermava all’8%.
In cambio il Sudan supportava le politiche espansioniste di Putin. Fu tra i pochissimi sostenitori dell’annessione della Crimea. Insieme a una decina di altri paesi, nel marzo del 2014 votò contro una risoluzione dell’assemblea generale dell’Onu, che riteneva non valido il referendum di autodeterminazione organizzato dopo l’occupazione militare. Fu il solo paese africano insieme allo Zimbabwe.
Base sul Mar Nero
Ma l’influenza russa in Sudan divenne presenza sempre più significativa dopo il 2017. La svolta fu supportata dalle dichiarazioni dell’allora presidente El-Bashir in visita ufficiale a Sochi, sul Mar Nero. In quell’occasione al El-Bashir parlò a più riprese, pubblicamente, di interferenze degli Stati Uniti negli affari interni dei paesi arabi e del suo paese. In un’intervista a mass media locali accusò gli Usa di aver supportato la secessione del Sud Sudan e di lavorare per una ulteriore divisione del Sudan.
In quell’occasione si parlò per la prima volta di una base militare russa sul mar Rosso. È la stessa base di cui si è discusso nella visita a Khartoum del ministro degli esteri Lavrov nei giorni scorsi. Pare che si sia fatto un notevole passo avanti verso la fase di realizzazione del progetto che avrà conseguenze geopolitiche di notevole portata. La base militare permetterebbe a Mosca, infatti, di controllare le rotte commerciali che percorrono il Mar Rosso, comprese quelle del petrolio, ancora vitale fonte di energia per il funzionamento complessivo dei paesi europei che se ne approvvigionano in parte non irrilevante dai paesi del Medio oriente e della penisola arabica.
La cavalcata di Wagner
A partire dal 2017, a seguito del chiaro appello del presidente sudanese, Mosca ha gradualmente avviato una presenza militare, avvalendosi proprio del gruppo Wagner. Il Sudan fu il primo paese africano dove il gruppo si insediò stabilmente. Il mandato era proteggere il regime al potere, formandone le forze di sicurezza. In cambio avrebbero potuto accedere a contratti di favore per lo sfruttamento di risorse minerarie stringendo rapporti di corruzione e collusione con parti della leadership militare. Il vicepresidente, generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemetti, considerato ora uno degli uomini più ricchi del paese, ha costruito la sua fortuna sull’estrazione dell’oro e sugli accordi più o meno ufficiali e legali con il gruppo Wagner.
In Sudan, la Russia di Putin ha di fatto messo a punto uno schema che ha poi applicato in diversi altri paesi del continente. Lo scopo è chiaro: ampliare la sua influenza diplomatica, politica, militare ed economica sostenendo governi autoritari, generalmente golpisti, con l’obiettivo di scalfire l’influenza occidentale e di sottrarsi all’isolamento internazionale dovuto alle sue politiche illiberali ed espansionistiche.
Lavrov, di ritorno a Mosca, ha dichiarato di essere soddisfatto della sua missione in Africa. E come si potrebbe dargli torto. Anche nell’ultima votazione riguardante la guerra in Ucraìna all’assemblea generale dell’Onu dei 32 astenuti molti erano africani. Eritrea e, per la prima volta, Mali, hanno votato contro (insieme a Corea del Nord, Siria, Bielorussia e Nicaragua).