Dalla fine dell’anno scorso un altro focolaio di pericolosa instabilità si è aperto nel Corno d’Africa, una delle regioni già più instabili del pianeta. Teatro della nuova crisi è il Somaliland, l’ex Somalia britannica, che si è proclamato indipendente dalla Somalia nel 1991. La sua dichiarazione non è stata riconosciuta dalla comunità internazionale, che lo considera come uno degli stati federali somali.
Questo non ha impedito al paese, pur nel relativo isolamento internazionale, l’organizzazione di una “indipendenza di fatto”. Vi si eleggono, rispettando le scadenze previste dalla Costituzione in vigore dal 2001, il presidente, il parlamento, le amministrazioni locali e si conia moneta.
Il Somaliland è stato finora considerato come una delle zone più stabili e affidabili in una regione perennemente in subbuglio. Ma forse le cose non erano esattamente come sembravano. Ora potrebbero anche peggiorare.
Le tensioni, sempre latenti in un paese al centro degli interessi politici e territoriali di Mogadiscio e dei suoi stati federali, sono diventati scontri alla fine dello scorso dicembre. Non era la prima volta, per la verità. Crisi sfociate in combattimenti anche duri e prolungati si sono avute nel 2007, 2010, 2016, 2018 e nell’agosto 2022, sempre per questioni inerenti alle province di Sool, Sanaag e Cayn, al confine con lo stato somalo del Puntland.
La popolazione della zona, che dal 2007 si definisce con la sigla SSC, è sempre stata più che tiepida nei confronti della secessione decisa ad Hargeisa, capitale del paese. E per questioni essenzialmente di appartenenza clanica.
La SSC è territorio tradizionale dei Dhulbahante e Warsangeli, che si percepiscono come clan della Somalia settentrionale, mentre l’indipendenza è stata voluta soprattutto dagli Issaq, che costituiscono l’80% della popolazione e abitano, tra l’altro, le città più importanti come Hargeisa e il porto di Berbera.
Gli Issaq hanno lottato per l’indipendenza anche prima della dissoluzione della Somalia, provocata dalla caduta del regime di Siad Barre, costituendo la maggioranza e la leadership del gruppo di opposizione armata Somali National Movement (Movimento nazionale somalo – Snm).
Tra i numerosi episodi della guerra civile che ebbe il suo picco tra il 1987 e il 1989, gli Issaq non possono dimenticare il genocidio della loro gente. L’esercito governativo massacrò allora dai 50mila ai 100mila civili (fonti locali dicono 200mila) e distrussero Hargeisa, che venne demolita per il 90%.
Gli scontri delle ultime settimane interessano la cittadina di Las Anod, capoluogo delle regione di Sool. Secondo una ricostruzione di The East African, accreditato settimanale regionale di approfondimento, gli scontri degli ultimi due mesi sarebbero stati originati dall’assassinio di un politico locale, Abdifatah Abdullahi Abdi, conosciuto come Hadrawi, presidente di Wadani, uno dei due partiti di opposizione.
Il suo omicidio avrebbe scatenato un dibattito sugli assassinii politici nella zona: una quarantina negli ultimi 12 anni, secondo stime ufficiali; 24 delle vittime erano funzionari governativi. Molti di questi crimini politici sono rimasti impuniti.
Il 28 dicembre 2022 una dimostrazione nel centro di Las Anod per chiedere conto dell’inerzia governativa, veniva repressa violentemente dalla polizia. Era la miccia della crisi. Dopo giorni di disordini, la folla sfilava sotto la bandiera della Somalia, chiedendo di fatto la secessione da Hargeisa. Alcuni giorni dopo, la richiesta veniva formalizzata dagli anziani del clan autoctono dei Dhulbahante.
Nella dichiarazione si legge: “I territori della SSC saranno amministrati secondo i dettami della costituzione della Somalia”. “Le regioni SSC saranno governate dal governo federale della Somalia, fino a quando la Costituzione provvisoria del paese non sarà completata”.
La dichiarazione esasperava gli animi e la crisi raggiungeva un drammatico picco all’inizio di febbraio, con cinque giorni di violentissimi scontri, interrotti dalla decisione del Somaliland di cessare il fuoco: «Il governo del Somaliland si è detto d’accordo di cessare il fuoco incondizionatamente, nonostante i passati attacchi da parte delle milizie» dichiarava il ministro della difesa Abdiqani Mahamoud Ateye.
Ma i combattimenti sono ripresi pochi giorni dopo e continuano.
Le autorità del Somaliland denunciano il coinvolgimento di forze esterne, dal Puntland all’Etiopia, che negano decisamente, senza tuttavia convincere gli osservatori. Il presidente, Muse Bihi Abdi, si spinge fino ad accusare un parlamentare kenyano, eletto nel collegio elettorale di Dadaab, dove si trova il campo profughi che da decenni ospita centinaia di migliaia di somali. L’interessato dice di aver solamente stigmatizzato la violenza contro i civili.
La preoccupazione per la stabilità regionale è espressa nelle dichiarazioni di paesi quali Qatar, Somalia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, riprese anche da Gran Bretagna e Stati Uniti, che chiedono di fermare le armi e di impegnarsi in un costruttivo dialogo per ristabilire la pace.
In gioco, secondo diversi osservatori, ci sarebbero le elezioni, che dovrebbero svolgersi nel corso di quest’anno, e soprattutto il riconoscimento internazionale dell’indipendenza del paese, il cui punto di forza era finora la stabilità, ben più solida di quella garantita dal governo di Mogadiscio nel resto della Somalia. Immagine che la crisi attuale mette decisamente a rischio.
Intanto il conflitto ha avuto conseguenze pesantissime sui civili. I morti si contano a decine. Secondo stime dell’Unhcr, i profughi – donne e bambini in maggioranza – sarebbero oltre 185mila e altri 60mila avrebbero passato il confine con l’Etiopia. I danni ai servizi di base quali presidi sanitari e scuole sarebbero gravissimi, in un paese in cui la siccità che devasta l’intera regione sta già avendo un impatto drammatico sulla popolazione.