«Non sono la democrazia e i diritti umani che gli Usa stanno perseguendo in Africa. Quello che stanno perseguendo sono i loro interessi geopolitici, i propri interessi economici. Non è per noi, è per loro che lo fanno». Fred Mmembe, presidente del partito socialista dello Zambia, sintetizza così, e senza mezze parole, il sentimento (e il pensiero) di molti africani rispetto all’avvicinamento degli Stati Uniti al continente.
Ed è un sentimento probabilmente condiviso in parte anche da quei leader che in questi giorni hanno dato il benvenuto alla vicepresidente Kamala Harris. La Harris ha incontrato i capi di Stato di Ghana, Tanzania e Zambia, e anche – ci ha tenuto particolarmente – donne e giovani.
Ma è l’interesse reciproco che giocherà nei rinnovati rapporti tra Washington e l’Africa, i cui leader sono pronti ad “approfittare” di tutte le disponibilità offerte. E a giudicare da quelle messe in campo in meno di una settimana dalla numero due della Casa Bianca, la partita si giocherà a suon di miliardi e di promesse di aiuto.
Per cominciare l’annuncio di una spesa pari a 1 miliardo di dollari per iniziative tese all’empowerment delle donne africane, poi altri 100 milioni di dollari per combattere l’estremismo di matrice islamista in Africa occidentale. E ancora accordi e memorandum d’intesa per favorire gli scambi commerciali e gli investimenti privati, come quello da 500 milioni di dollari per aiutare imprese statunitensi a esportare beni e servizi in Tanzania.
Toccato anche il tema dei diritti Lgbtq+. Il presidente ghaneano, Nana Akufo-Addo, ha messo le mani avanti annunciando che la legge in discussione sarà emendata nelle sue parti più draconiane, e poco importa se quando la Harris ha lasciato il paese le critiche al presidente per la sua posizione accomodante non si sono fatte attendere.
Tra le righe sia la Harris che i suoi collaboratori in questi giorni hanno tenuto a sottolineare che non è sotto l’impulso della presenza massiccia della Cina in Africa che questo viaggio è stato organizzato. E che la politica di avvicinamento e nuove relazioni tra Usa e Africa vanno oltre la Cina e la sua influenza nel continente.
Ma fa riflettere l’annuncio di Washington: il dipartimento del tesoro invierà nel corso di quest’anno consulenti a tempo pieno per assistere i ministri delle finanze nello sviluppo e nell’esecuzione delle riforme a medio e lungo termine, necessarie per migliorare la sostenibilità e ristrutturazione dei debiti.
Si comincia con il Ghana e si proseguirà in altri paesi tra cui Camerun, Kenya, Madagascar, Namibia, Tanzania, Gambia e Zambia. Gli advisor opereranno nella politica e amministrazione delle entrate; bilancio e responsabilità finanziaria; emissione di debito pubblico e finanziamento di infrastrutture; servizi bancari e finanziari e reati economici.
Ma aiutare in scelte sostenibili vorrà di fatto anche dire “controllare” le voci di spesa e quelle di entrata. Nessuno ha apertamente parlato dei debiti contratti da molti paesi africani con la Cina – solo il Ghana ha un debito pari a 1.9 miliardi, un terzo del totale dei debiti su base bilaterale – ma il sottinteso è lampante.
E a proposito della questione debitoria, poco tempo fa il governo cinese aveva invitato gli Stati Uniti a smettere di fare pressioni su Pechino per la riduzione del debito (in questo caso dello Zambia, primo paese africano ad annunciare default nel periodo della pandemia, con un debito totale che ammonta a 17 miliardi di dollari) e concentrarsi sull’evitare un default del governo interno, “che potrebbe avere ripercussioni sull’economia globale”.
L’unica a inserire un discorso riguardo ai diritti dei cittadini africani rispetto all’Occidente, è stata la presidente tanzaniana, Samia Suluhu Hassan. Alla vicepresidente degli Stati Uniti Hassan ha detto: «questa è una questione non meno importante delle altre: il rilascio dei visti – anche di lunga durata – per facilitare la circolazione di persone, merci e servizi tra i nostri due Paesi».
E dunque ha esortato il governo degli Stati Uniti a rivedere lo status dei visti, ritenendosi certa che in questo modo «i nostri due Paesi registreranno un aumento significativo del commercio, del turismo e degli investimenti».
Particolarmente significativa, anche sotto l’aspetto simbolico – nel paese la Harris aveva vissuto per un po’ con il nonno – la visita in Zambia dove la vice presidente è stata accolta dal presidente Hakainde Hichilema, che proprio in questi giorni ha ospitato il Summit sulla democrazia, presenti anche gli Stati Uniti.
Un argomento, quello della democrazia, molto delicato non solo in Africa, dove le elezioni non sono un’assicurazione per governi veramente democratici, ma per gli stessi Usa che in nome di questo concetto hanno contribuito o alimentato lo sfascio di governi e popolazioni.
E per tornare alla Cina, è in un aeroporto costruito da imprese e con soldi cinesi che l’Air Force 2 è atterrato e sono strade costruite dai cinesi quelle su cui ha viaggiato la delegazione statunitense. Come ha affermato Edem Selormey, ricercatrice presso il Ghana Center for Democratic Development: «L’influenza della Cina in Africa è ampiamente considerata positiva». La differenza tra Usa e Cina spesso riguarda «ciò che i cittadini vedono sul campo», come i progetti infrastrutturali, e «gli Stati Uniti mancano da questo contesto da un po’».
Come sono mancati, in realtà, anche in altri contesti che invece oggi rappresentano le basi della presenza cinese. A livello culturale, ad esempio. Lo Zambia, dal 2009, ospita il Confucius Institute mentre in Tanzania è stata recentemente inaugurata una scuola per formare quadri dirigenti africani. Intitolata al padre della patria, Julius Nyerere e sostenuta dall’impegno dei movimenti di liberazione del Sudafrica, Mozambico, Angola, Namibia, Zimbabwe, è stata finanziata dal Partito Comunista Cinese.
I tre presidenti africani hanno riconosciuto e ringraziato per gli aiuti degli Usa, sia quelli passati, come per esempio il piano Pepfar per combattere l’Aids – lo ha ricordato la presidente tanzaniana – che quelli che verranno, ma sanno che una presenza non esclude l’altra. Né quella della Cina, né tantomeno quella della Russia, i cui membri della Wagner (gruppi di mercenari ben armati) non sono venuti di loro iniziativa ma chiamati da capi di Stato a supporto (dicono) della sicurezza.
Qualche tempo fa il presidente francese Emmanuel Macron aveva detto che l’Africa deve risolvere da sé i suoi problemi (sottintendendo la solita retorica di un’Africa da aiutare perché piena di problemi). Abbastanza difficile quando grandi potenze decidono che invece no, l’Africa ha bisogno di soldi, consulenze finanziarie, consigli.