A due giorni dal suo scoppio, lo scontro tra le forze armate sudanesi (Saf) e le Forze di intervento rapido (Rapid Support Forces, Rsf) si va diffondendo e intensificando, con il rischio concreto di trascinare il Sudan verso una vera e propria guerra civile.
La mattina del 15 aprile si sono trasformate in durissimo scontro armato le divergenze sempre più profonde tra il generale Abdel Fattah al-Burhan, comandante in capo delle Saf, di fatto presidente del paese in quanto capo del Consiglio sovrano, la suprema istituzione sudanese, e il suo vicepresidente, generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, comandante e “padrone” delle Rsf, una milizia privata che ha radici nelle bande janjaweed che hanno devastato il Darfur durante la guerra civile in quella regione.
La tensione era andata aumentando durante la scorsa settimana, quando si erano interrotti i negoziati per definire i tempi e le modalità della fusione delle due forze, previsto dall’accordo per la transizione democratica del paese.
Nei giorni seguenti le Rsf avevano cominciato a dispiegarsi nella capitale Khartoum, e nella zona di Merowe, nello stato del Nord, dove si trova un importante aereoporto militare con la presenza anche di un contingente dell’esercito egiziano, fatto prigioniero dalle Rsf nelle prime ore del conflitto.
I primi combattimenti sono stati segnalati proprio durante la mattinata nel centro di Khartoum, nelle vicinanze di punti chiave per il paese come l’aeroporto internazionale, il palazzo presidenziale, il quartier generale dell’esercito, la sede della televisione e dei media governativi, ma anche in prossimità del quartier generale delle Rsf e di altre basi della milizia, e nelle città gemelle di Omdurman e Khartoum Nord. Altro epicentro si è registrato a Merowe, per il controllo dell’aeroporto militare.
Saf e Rsf si sono reciprocamente accusate di aver attaccato per prime e hanno rilasciato dichiarazioni contrastanti sulla situazione. Ce lo racconta una nostra fonte a Khartoum protetta da anonimato:
Nella prima giornata, le vittime sono state numerose. Secondo un comunicato del Comitato dei medici sudanesi – l’associazione professionale che ha partecipato al movimento popolare che ha rovesciato il regime di Omar El-Bashir nell’aprile del 2019 – ci sarebbero stati 56 morti e circa 600 feriti solo tra i civili. Ma il numero è purtroppo destinato ad aumentare. Poche ore fa l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), si è appellata alle due parti combattenti perché rispettino i presidi sanitari, comunicando che i morti sarebbero ormai 86 e i feriti 1.126.
In meno di 24 ore il conflitto si è diffuso praticamente in tutto il paese. Secondo notizie circolate via Twitter domenica 16 aprile, ci sarebbero stati scontri in diverse località del Darfur, tra cui Nyala, El Fasher, Zalingei, El Genina e Kabkabiya, dove tre operatori del Programma alimentare mondiale sono stati uccisi e due altri feriti. Un velivolo dell’organizzazione è stato danneggiato nel tiro incrociato tra le due parti combattenti all’aeroporto di Khartoum. I due gravi incidenti hanno determinato la sospensione delle operazioni umanitarie in tutto il Sudan.
Si è combattuto anche nell’Est, a Kassala e a Port Sudan, il porto principale, da cui passano gran parte dei traffici commerciali con l’estero, comprese le importazioni dei beni di prima necessità, come il grano. Scontri sono stati segnalati anche nel Nord Kordofan, ad El Obeid, e nello stato del Blue Nile, a Damazine.
Notizie inquietanti si sono susseguite per tutto il giorno senza la possibilità di verifiche indipendenti, dal momento che da ieri il paese è praticamente isolato. Ѐ stato chiuso l’aeroporto internazionale di Khartoum e sono state bloccate le comunicazioni via internet. Il Ciad, che ha ricevuto negli anni ondate di profughi dal Darfur, ha chiuso il confine.
Le ultime notizie, diffuse da fonti giornalistiche credibili, fanno pensare che nelle ultime ore l’esercito regolare stia riguadagnando posizioni.
Un conflitto prevedibile
Ma la situazione rimane estremamente preoccupante. Urgent action needed to preempt Sudan’s descent into civil war. (E’ necessaria un’azione urgente per prevenire la discesa del Sudan nella guerra civile), dice un comunicato dell’organizzazione sudanese Sudan Policy and Transparency Tracker, che si occupa di monitorare le politiche e la trasparenza delle istituzioni del paese.
L’appello ricorda un’analisi precedentemente diffusa, A Political Process Besieged (Un processo politico assediato) in cui si esprimeva preoccupazione per i nodi ancora aperti nei negoziati per l’accordo politico per la formazione di un governo a guida civile, che avrebbe dovuto essere firmato all’inizio del mese. L’unificazione tra esercito regolare e Rsf era considerato il più importante, complicato e delicato.
L’organizzazione chiarisce la sua posizione sull’attuale situazione con una frase inequivocabile: “Nessuno deve farsi illusioni pensando che l’una o l’altra delle parti sia interessata alla democrazia; entrambe stanno cercando di conservare ed espandere il proprio potere”.
Prosegue facendosi, in un certo senso, portavoce dei sudanesi tutti, richiamandoli al dovere di assumersi la propria responsabilità per impedire che il paese venga dilaniato da una guerra civile. Si appella perché intensifichino le proteste popolari, rifiutino un ritorno ad un regime militare e denuncino i tentativi del regime del deposto presidente Bashir di cavalcare la situazione riprendendosi il potere.
Il documento si appella infine alla comunità internazionale perché condanni rapidamente l’escalation militare.
Condanne e ingerenze esterne
E in effetti le dichiarazioni a supporto del processo politico in atto, bruscamente interrotto dagli scontri armati, sono stati numerosi. Si sono finora espressi, seppur con diverse sfumature, Stati Uniti, Cina, Russia, Egitto, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Nazioni Unite, Unione europea e Unione africana. Bisognera vedere quanto queste prese di posizione saranno efficaci e ascoltate.
Non si può infatti dimenticare che i due contendenti hanno i propri padrini proprio tra i paesi che ora chiedono loro di deporre le armi. Nella regione, il presidente, generale al Burhan, è appoggiato dall’Egitto con cui ha un accordo di cooperazione militare, mentre Hemetti è sostenuto da Etiopia, Eritrea e Emirati, oltre che dalla Russia di cui è il maggior alleato nel paese.
Nelle interviste di semplici cittadini sudanesi e anche di analisti politici locali fatte circolare dai social media nei giorni scorsi è chiarissimo il timore che qualcuno, dall’esterno, soffi sul fuoco per portare al potere il proprio cavallo.
Gli appelli, comunque, per ora, non hanno avuto ascolto. I combattimenti continuano, la situazione rimane caotica mentre gli spiragli per una composizione politica sembrano al momento stretti come la cruna di un ago.
All’inizio degli scontri armati, con un comunicato congiunto, le forze che compongono l’esercito regolare hanno dichiarato che “non può esserci negoziato o dialogo” fino a quando “la milizia ribelle di Hemetti” non sarà stata sciolta. Parole precise e pesanti che non fanno pensare ad una veloce soluzione della crisi.