Da ieri la popolazione del Sudan è un po’ più sola. Molte ambasciate sono state chiuse e centinaia di stranieri sono stati evacuati con operazioni complicate e in qualche caso rocambolesche.
Anche circa 140 nostri connazionali sono stati tratti in salvo con aerei dell’aviazione militare italiana. Dopo una sosta a Gibuti, arriveranno in Italia nelle prossime ore. Altri erano già riusciti a lasciare il paese via terra nei giorni scorsi. Un sospiro di sollievo per governi e famiglie, giustamente preoccupati per chi era rimasto intrappolato in una situazione estremamente difficile e pericolosa.
Ora la carneficina continuerà con meno testimoni indipendenti e tra qualche giorno l’interesse mediatico per forza di cose sfumerà, come è sfumato in altri casi analoghi: ultimo l’Afghanistan. Ma gli scontri di quella che molti temono possa diventare una vera e propria guerra si prolungheranno, speriamo non troppo a lungo.
Pochi stranieri hanno deciso di rimanere. Tra loro gli operatori di Emergency, una quarantina di persone. L’organizzazione gestisce un centro di cardiochirurgia a Khartoum e tre ospedali: a Nyala, in Darfur, a Port Sudan nello stato del Mar Rosso, e a Mayo, alla periferia di Khartoum, per ora non operativo a causa dei combattimenti nella zona.
Anche Medici senza Frontiere ha deciso di continuare le operazioni nel paese. La popolazione, presa tra due fuochi, ha un bisogno estremo di soccorso medico.
Sono ormai 10 giorni che l’esercito regolare (Saf) e le milizie paramilitari delle Forze di intervento rapido (Rsf) si combattono senza dare segnali di interesse per l’apertura di un tavolo negoziale, e neppure per una tregua durante i giorni della festività più sentita nel mondo islamico, Eid al Fitr, che segna la fine del mese del Ramadan.
Le vittime sono ormai cosi numerose che i numeri non sono concordi, probabilmente a causa della difficoltà di raccogliere dati dai diversi angoli del paese, e soprattutto dalla capitale, dove in molti quartieri è pericoloso uscire di casa anche per approvvigionarsi dei beni di prima necessità e perfino per raccogliere i cadaveri.
Secondo i dati diffusi ieri da Ocha, l’organizzazione dell’Onu per il coordinamento degli interventi umanitari, i morti accertati sarebbero almeno 427 e 3.700 i feriti, ma altre fonti danno dati anche più drammatici. Tra i morti ci sono almeno 5 persone impegnate in operazioni umanitarie. L’ultimo lavorava per l’Oim, l’organizzazione internazionale per le migrazioni, ucciso ad El Obeid, nel Nord Kordofan.
Inoltre si fa di ora in ora più intenso il flusso dei profughi. Tra le 10 e le 20mila persone, la grande maggioranza donne e bambini, hanno già passato il confine con il Ciad, aggravando la già grave situazione umanitaria nel paese. Ma migliaia di persone stanno lasciando le proprie case in diversi stati del paese. Solo ad El Obeid sarebbero in fuga dai durissimi combattimenti tra le 7.500 e le 8mila persone. Migliaia di sfollati anche negli stati del centro del paese: El Gezira, Sennar, Nilo Bianco, Fiume Nilo e El Gedaref.
Ma la situazione è particolarmente critica nella capitale, Khartoum, che, insieme alle città gemelle di Omdurman e Khartoum Nord conta circa 4 milioni di abitanti. In città ormai manca tutto. Le tregue che avrebbero dovuto permettere alla gente di comprare cibo e acqua non hanno tenuto. I servizi di base, come l’acquedotto e la rete elettrica, si sono fermate perché i tecnici addetti al loro funzionamento e e alla loro manutenzione non hanno potuto raggiungere il posto di lavoro.
Sta collassando il sistema sanitario. Secondo Il Comitato centrale dei medici sudanesi (Ccsd), 39 su 59 ospedali della città e dei dintorni sono chiusi, molti perché danneggiati nei combattimenti, alcuni addirittura deliberatamente distrutti e saccheggiati, altri perché a corto di personale e di farmaci. Nessuno é in grado di fornire i servizi che dava prima dello scoppio della crisi. Particolarmente a rischio sono i feriti che spesso non riescono a raggiungere neppure i pochi presidi sanitari ancora funzionanti.
Eroi oscuri della resistenza
In una situazione tanto critica molti sudanesi si sono mobilitati per dare servizi ai loro concittadini. “Gli oscuri eroi”, dice un articolo della Bbc, che garantiscono la sopravvivenza ai residenti di Khartoum. Usano i social media per comunicare. Gruppi Whatsapp, Twitter, pagine Facebook offrono cibo, ben sapendo che in molte case sono finiti i rifornimenti.
“In questo momento abbiamo disponibili 750 pacchi di cibo. Ognuno sufficiente per una famiglia di 6 persone”, dice un tweet. Altri diffondono liste di posti dove è ancora possibile trovare acqua. Una famiglia di Ondurman fa sapere: “La nostra casa è aperta 24 ore su 24 per chi ha bisogno di acqua”. Pochi esempi di una lunga catena di solidarietà.
Molti di coloro che si mettono a disposizione sono giovani dei comitati di resistenza popolare, i gruppi che hanno tenuto viva la mobilitazione che ha portato alla caduta del regime di Omar El-Bashir e si e opposti al golpe militare del 25 ottobre 2021.
Allo scoppio dei combattimenti, sabato 15 aprile, si sono passati la parola di tenersi pronti a fare in necessario per sostenere la popolazione civile e per diffondere lo slogan “No alla guerra”, per chiarire molto bene ai due che si contendono il potere a suon di bombe da che parte sta la gente.
Aiuti vengono dalla diaspora che si è attivata immediatamente per raccogliere fondi e beni da spedire nel paese. L’organizzazione dei medici sudanesi nel Regno Unito, ad esempio, ha raccolto in brevissimo tempo 9mila sterline che manderanno all’organizzazione dei medici a Khartoum per acquistare medicinali per gli ospedali.
Ѐ partita immediatamente anche la mobilitazione politica. Ad El Fasher, capitale del Darfur Settentrionale, secondo un tweet diffuso ieri, si è formato un comitato – di cui fanno parte leader religiosi, attivisti della società civile, funzionari governativi e lo stesso governatore – che e riuscito ad ottenere una tregua tra le due parti combattenti.
Ѐ un’iniziativa significativa che potrebbe essere presa a modello anche in altre zone del paese. Un appello, preparato da organizzazioni della società civile sudanese, ha raccolto più di 200 firme di attivisti e intellettuali in poche ore, nonostante l’emergenza.
Forse la lunga mobilitazione popolare che dal dicembre del 2018 ha portato milioni di persone nelle strade a sostegno di un cambiamento, ha forgiato la resilienza dei sudanesi. Non si sono fatti fermare dal golpe di palazzo con cui i militari hanno deposto El-Bashir nell’aprile del 2019, e neppure dal colpo di stato militare del 2021. E, a quanto pare, non si faranno fermare neppure dalla guerra di potere che sta portando tante sofferenze e tanta incertezza nel paese.
Nei documenti di analisi e negli appelli di organizzazioni regionali, attivisti e analisti sudanesi si legge chiaramente che in questo momento hanno bisogno dell’aiuto della comunità internazionale, ma che il bandolo per uscire dalla crisi è, e deve rimanere, saldamente nelle loro mani.