Il Festival di Cannes si è concluso e nonostante i due film in competizione per la Palma d’oro, Les filles d’Olfa di Kaouther Ben Hania e Banel et Adama di Ramata-Toulaye Sy non siano stati premiati, il cinema africano esce a testa alta.
La stampa ha celebrato l’emergere di nuovi talenti e lo stesso sito del Festival ha dedicato un focus sul nuovo posto conquistato dal cinema africano, sottolineando la presenza nella giuria lungometraggi della regista marocchina Maryam Touzani e di Rungano Nyoni, regista dello Zambia, e lodando l’iniziativa del ‘Pavillons d’Afrique’, spazio di incontro per produttori interessati ai registi del continente.
C’è stata poi la consegna della Carrozza d’oro a Souleymane Cissé, prestigioso premio della SRF consegnato in occasione dell’inaugurazione della ‘Quinzaine de Cineastes’. L’opera del regista, produttore, montatore si colloca – si legge nel comunicato stampa – all’incrocio tra poetico e politico, critica sociale e mitologia, rimane radicato nella tradizione del Mali pur aprendosi all’universale.
Il regista, premiato a Cannes nel 1987 con il Gran premio della giuria per Yeelen, ha rilasciato numerose interviste dove ha sempre ribadito l’esistenza della censura nel cinema e la necessità che i film africani vengano visti in tutto il mondo.
Ma arriviamo ai premi. Sono in tutto quattro i film africani che hanno ottenuto un riconoscimento e tutti provengono dalla Sezione ‘Un Certain Regard’.
Augure del rapper performer di origine congolese Baloji che ha ricevuto il Premio nuova voce è decisamente un film riuscito. Nonostante un intreccio narrativo che risulta a tratti troppo complesso e oscuro, il film riesce infatti ad affrontare senza retorica il complesso tema della stregoneria.
Partendo da un vissuto ed un interesse fortemente personale (da piccolo il regista veniva accusato di stregoneria a causa del suo nome che significa, appunto, stregone), Baloji, nato a Lumumbashi (Rd Congo) e residente in Belgio, costruisce un racconto corale su quattro personaggi (un uomo, un ragazzino, una giovane donna, un’anziana) accusati di stregoneria.
La rilevanza data all’aspetto scenografico, con costumi, trucchi e musica di grande impatto visivo e sonoro, non entra in contraddizione con il ritratto duro che il regista fa del suo paese con un affondo sulla povertà (lo squarcio sui lavoratori delle miniere è notevole) e la sopravvivenza di credenze e superstizioni crudeli.
La scelta di un realismo magico non schiaccia una feroce critica sociale, rivendicata dal regista stesso che nelle interviste dichiara di aver voluto raccontare le ingiustizie di un paese strutturato per gli uomini e per un controllo del corpo della donna, dove quest’ultima soffre ancora di più dell’accusa di stregoneria rispetto agli uomini.
C’è poi la costruzione di un triangolo culturale che pesca dalla cultura popolare e tradizionale dell’Africa Centrale (le maschere, il wrestling, le processioni), da New Orleans (Il Mardi Gras) e dal Belgio (le figure folkloristiche Gilles, la pittura di Magritte) ma anche da Hansel e Gretel.
Baloji afferma di aver voluto giocare con più generi, il dramma famigliare, la satira, la favola per adulti e di avere in un certo modo preso in giro il genere “del ritorno al paese” tanto sfruttato, a volte con troppa retorica e ideologia, dai registi africani.
Ossessionato dal punto di vista nel cinema ha voluto giocare con un continuo cambio di prospettive sfruttando al massimo le potenzialità del cinema come arte totale. Il film è accompagnato da 4 album musicali, ognuno dedicato ad uno dei personaggi e da una mostra che inaugurerà ad ottobre.
La regista marocchina Asmae El Moudir ha ricevuto il Premio per la messa in scena per La mère de tous les mensonges, che attraverso un complesso dispositivo di racconto che mescola documentario, finzione e l’uso di marionette, cerca di ricomporre una memoria familiare e nazionale.
La regista parte dalla mancanza di sue fotografie da bambina e cercando di dare nuovamente spazio all’immaginazione, troppo spesso soffocata dalle notizie recuperate su web, chiede al padre di ricostruire la casa di famiglia e il quartiere attraverso una scenografia di carta e delle marionette. Uno stratagemma poetico per affrontare un passato ingombrante, spesso doloroso.
Protagonista assoluta della memoria famigliare è la nonna, dittatrice e spiona, nemica assoluta delle fotografie e che distrugge con il bastone un suo ritratto realizzato per il film.
Lo sguardo della regista piano piano si allarga al quartiere per focalizzarsi sull’omicidio di una vicina avvenuto durante la cosiddetta ‘rivolta del pane’ esplosa a Casablanca nel 1981.
E’ la ricerca di una forma nuova, personale, per raccontare una storia già patrimonio di tutti. E’ questo il ruolo del cinema, rimettere in scena, trovare una propria voce. E’ quello che distingue l’essere regista dall’essere giornalista.
Una distinzione che la regista rivendica anche nei confronti della nonna che insiste nel definire la nipote una giornalista. Sono due sguardi, due generazioni che si incrociano e in rari casi si comprendono.
Les meutes di Kamal Larzaq, thriller ambientato nei quartieri popolari di Casablanca ha ricevuto il Premio della giuria. Apparentemente è una storia semplice che racconta come un padre e un figlio debbano riuscire in una notte a sbarazzarsi di un cadavere.
Ma il film contiene una profonda riflessione sul Marocco contemporaneo, dove la dimensione dell’assurdo e della farsa sono presenti quotidianamente nei quartieri poveri di Casablanca, dove spesso la gente è costretta a scegliere la via della criminalità per sopravvivere, dove la religione e la superstizione sono pervasive, e dove l’autorità paterna non è mai messa in discussione.
Girato con attori non professionisti originari dei bassifondi dove è ambientata la storia, Les Meutes si avvale della splendida fotografia di Amine Berrada.
Goodbye Julia di Mohamed Kordofani che si è aggiudicato Premio della libertà è un film esplicitamente politico sul rapporto tra il Sudan e il Sud Sudan, diventato indipendente nel 2011.
Attraverso la storia di Mona, ex cantante del Sudan del Nord, che soffocata dai sensi di colpa per aver investito e ucciso un uomo, assume la vedova come domestica.
Un dramma individuale che si allarga a due nazioni diventando riflessione sulla colpa, il razzismo, la guerra e l’instabilità politica, il patriarcato e il conservatorismo.